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Terra d'Egnazia

~ 'Gnatia Lymphis iratis exstructa'

Terra d'Egnazia

Archivi Mensili: novembre 2013

Il Piano Comunale della Costa monopolitana: un “paesaggio culturale”

21 giovedì Nov 2013

Posted by terradegnazia in Paesaggio, Urbanistica

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“Il PPTR la via Pugliese allo sviluppo sostenibile”

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di Giambattista Giannoccaro

Foto Chicco Saponaro e Giambattista Giannoccaro

Negli ultimi anni, l’amministrazione regionale pugliese, ha prodotto le più interessanti attività pianificatorie della sua storia che la vedono citata ed apprezzata in Italia ed Europa per l’adozione di uno dei più interessanti piani paesaggistici regionali Italiani che, in più porta la firma di Alberto Magnaghi, (leggi anche “Il PPTR la via Pugliese allo sviluppo sostenibile” del 14 nov).

Una regione, quella pugliese, inserita però in un contesto sociale in cui la Pianificazione non è la forma ordinaria di governo del territorio e che per arrivarci dovrà ancora compiere enormi sforzi per giungere alla trasformazione culturale necessaria, soprattutto per l’assenza di una cultura storica municipale, per il protrarsi di un sistema decisionale d’elite, centralistico e burocratico che dal passato si proietta sulla attuale persistenza di una dipendenza economica e di scarsa imprenditività in molti settori, dall’agricoltura al terziario.

Fra gli strumenti pianificatori dell’ attuale amministrazione  il Piano Regionale delle Coste (PRC) della Puglia, di cui all’art. 3 della Lr n.17 del 23.06.2006, adottato dalla Giunta Regionale nel luglio 2009 (con la delibera n. 1392 del 28/07/2009) e approvato con Dgr n.2273 del13.10.2011,  si prefigge di “garantire il corretto equilibrio fra la salvaguardia degli aspetti ambientali e paesaggistici del litorale pugliese, la libera fruizione e lo sviluppo delle attività turistico ricreative” (art. 1 norme tecniche di attuazione del PRC). In sintesi, il piano cerca di promuovere una relazione positiva tra tutela e sviluppo della costa.

Il PRC e di conseguenza i PCC  (Piani Comunali delle Coste definiti dall’Art. 4 della Lr n.17 del 23.06.2006) vanno visti come un’opportunità per affrontare in maniera interdisciplinare i molteplici conflitti che si presentano sulle aree costiere e per superare quella frammentazione delle conoscenze e quegli approcci di tipo settoriale che rendono difficile la formulazione di politiche efficaci di gestione della fascia costiera sul piano economico, sociale, paesistico e ambientale.

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Così dovrebbe essere per il PCC monopolitano, datato maggio 2013, la cui bozza, presentata il 31 ottobre  alla cittadinanza ed aperto al tavolo tecnico, voluto dall’assessorato all’urbanistica, presieduto dal neoeletto Stefano Lacatena,  il 18 novembre scorso. Tra i 13 gruppi accreditati, erano presenti anche, oltre a Terra d’Egnazia, il Comitato Costa Libera Monopoli, il WWF Monopoli, l’associazione Mare Libero, il Movimento Manisporche, e Cesare Bellantuono, consigliere nazionale del SIB (Sindacato Italiano Balneari).

Tavolo Tecnico

La Relazione Generale del PCC monopolitano  testualmente esordisce:

“Il Piano Comunale delle Coste, per definizione, è lo strumento di assetto, gestione, controllo e monitoraggio del territorio costiero comunale in termini di tutela del paesaggio, di salvaguardia dell’ambiente, di garanzia del diritto dei cittadini all’accesso e alla libera fruizione del patrimonio naturale pubblico, nonché di disciplina per utilizzo eco-compatobile.”

Premessa, nostro malgrado, senza sostanza. Nemmeno accennato un riferimento al PPTR, nei documenti resi pubblici della Bozza del PCC, che potremmo definire banale, datato come modalità di approccio pianificatorio e fine a se stesso, anzi, la dove definisce le “Aree con divieto assoluto di Concessione” rimette tutto in discussione nelle conclusioni qui di seguito:

“ Come risulta evidente dalla presente relazione, gran parte della costa monopolitana, risulta inadeguata all’installazione di strutture legate alla balneazione semplicemente perché interessata dalla presenza delle innumerevoli fasce di rispetto delle lame”  (le lame vengono viste come oggetto negativo e di impedimento alle nuove concessioni). e come risposta alla questione di “garanzia del diritto dei cittadini all’accesso e alla libera fruizione del patrimonio naturale pubblico” conclude:

E’ chiaro che studi specifici approfonditi a livello locale, redatti nel rispetto delle NTA del PAI ed ivi approvati dall’Autorità di Bacino della Puglia, potrebbero portare alla ridefinizione delle aree di rispetto, determinando una riduzione delle aree a divieto assoluto di concessione”

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E’ il solito piano calato dall’alto, come fosse localizzato nel deserto, che invece deve tener conto (non solo attraverso la illusoria apertura alla partecipazione avviata con il tavolo tecnico), della cultura del vivere il mare dei monopolitani e dello sviluppo reale e distribuito su tutto il territorio, con i fatti. Se si considera che non si è nemmeno ipotizzato di demandare ad azioni future le sue previsioni di sviluppo (turistico e non solo) del comparto produttivo dell’ entroterra, assieme alle emergenze ambientali e paesaggistiche in cui si colloca, (orti, lame e strutture ricettive rurali), allora i fatti ancora non lo dimostrano.

Un grande sostegno alla domanda di paesaggio e straordinari suggerimenti si sarebbero avuti dalla sola lettura del nuovo Piano Paesaggistico Regionale, soprattutto per il suo respiro strategico (Valorizzazione e riqualificazione integrata dei paesaggi costieri, Parco Agricolo degli Ulivi,  Mobilità Dolce, e via dicendo) per l’attuazione di uno sviluppo (sostenibile!) dell’intero territorio.

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Per concludere diciamo che è evidente il grosso gap culturale nel linguaggio tecnico degli addetti ai lavori, perdendo di vista le opportunità di sviluppo reale che si possono creare in momenti storici come quelli che stanno interessando la pianificazione strategica pugliese e nello specifico, monopolitana. L’amministrazione monopolitana dovrebbe approfittare di questo tavolo tecnico, folto e colto  per far si che la cultura urbanistica “avanguardista” contenuta anche nel PPTR, diventi un esempio da replicare.

La città contemporanea in generale è troppo incline alla rendita. Volete o nolente, il linguaggio con cui si esprime il paesaggio è alla fine il linguaggio della società che lo ha segnato, lo ha fatto proprio, lasciandovi il marchio del proprio passaggio e contiene tutte le verità che le società umane sanno inscrivere in esso e raccontare. Il racconto del paesaggio corrisponde alla storia della società che in quel paesaggio ha proiettato il suo agire materiale e la sua cultura, per questo possiamo dire che il paesaggio è sempre, implicitamente, un “paesaggio culturale”, in quanto manifestazione di quella società, del suo modo di proporsi nel suo ambiente, è il racconto dei modi in cui la società ha posto le sue basi in quel territorio.

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Immaginando quel paesaggio tramandato dai nostri avi e aprendo gli occhi oggi sul racconto che i nostri figli si troveranno davanti, se non vi porremo un limite, quello stesso paesaggio, non sarà degno della sua straordinaria storia.

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IL PPTR – La via pugliese allo sviluppo sostenibile*

14 giovedì Nov 2013

Posted by terradegnazia in Paesaggio, Territorio, Urbanistica

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Alberto Magnaghi, Pianificazione Territoriale, Piano Paesaggistico, Puglia, sviluppo sostenibile

*Secondo la definizione tradizionale, lo sviluppo sostenibile è “uno sviluppo che risponde alle esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie”. In altri termini, la crescita odierna non deve mettere in pericolo le possibilità di crescita delle generazioni future. Le tre componenti dello sviluppo sostenibile (economica, sociale e ambientale) devono essere affrontate in maniera equilibrata a livello politico. La strategia per lo sviluppo sostenibile, adottata nel 2001 e riveduta nel 2005, è completata tra l’altro dal principio dell’integrazione della problematica ambientale nelle politiche europee aventi un impatto sull’ambiente. (Fonte: sito ufficiale dell’Unione Europea)

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– a cura di Giambattista Giannoccaro

– Foto Chicco Saponaro

Attraverso la pubblicazione di alcune parti degli atti contenuti all’interno dei Quaderni del Paesaggio del PPTR pugliese, iniziamo un percorso di informazione che Terra d’Egnazia sente il dovere di mettere in campo.  In questa maniera vogliamo significare quanto lungo, complesso ma soprattutto partecipativo sia stato il processo di costruzione del Piano Paesaggistico Regionale Pugliese adottato lo scorso agosto e che ha provocato inutili allarmismi da un lato e facili entusiasmi dall’altro. Si vuole dare merito agli innumerevoli attori che vi hanno partecipato e fare soprattutto chiarezza su quanto sia ancora lunga la strada per riuscire, tutti insieme, a definire uno strumento definitivo e percepire le grandi potenzialità di sviluppo, “mirato”, contenute nel piano stesso. Alberto Magnaghi (Architetto e Professore  Ordinario di Pianificazione Territoriale presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze dove dirige il Laboratorio di Progettazione Ecologica degli  Insediamenti per lo sviluppo qualitativo locale dove ha elaborato il concetto di “sviluppo autosostenibile locale ” ) è il Coordinatore Scientifico del Piano. Vogliamo iniziare proprio pubblicando una sintesi dei suoi scritti, cercando il più possibile di parlare un linguaggio comune, per cominciare a far avvicinare il più possibile la gente ad una materia, la pianificazione territoriale, per giungere insieme a comprendere certe argomentazioni. Magnaghi sottolinea che “la Puglia non è trattabile come un “paese ancora insufficientemente pianificato” (che deve cioè imitare e raggiungere modelli emiliani o toscani), ma deve trovare una strada originale, nel vivo della propria autoriforma, al buon governo del territorio. Il PPTR è davvero un “progetto di valorizzazione socioeconomica del patrimonio dei paesaggi della Puglia” e “se oggi possiamo parlare di paesaggio rurale pugliese nelle sue multiformi espressioni…è perché la società contemporanea richiede il paesaggio, lo “vede” nelle forme trasformate della Terra. Il turismo culturale legge nei segni del lavoro umano, il paesaggio umano”. Tutto ciò  “richiede il concorso attivo delle energie istituzionali, economiche, sociali e culturali più innovative che puntano sulla tutela e valorizzazione delle straordinarie qualità del territorio pugliese e delle sue “genti vive” per produrre un modello di sviluppo della regione di carattere endogeno, autosostenibile capace di produrre ricchezza durevole“, per diventare, insieme, i primi attori, consapevoli delle trasformazioni dei nostri territori per non restare spettatori passivi ed “ignoranti”.

(G.G.)

(Prima Parte)

Dicembre 2008 – La costruzione sociale del Piano: metodi, obiettivi, strategie

Il Piano Paesaggistico alla prova pubblica
di Alberto Magnaghi

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La via pugliese alla Pianificazione Paesaggistica 

“Un piano è innanzitutto un evento culturale: le trasformazioni che è in grado di indurre non si misurano solo con la sua cogenza tecnico-normativa (in Puglia largamente inefficace,  dato lo storico deficit gestionale e applicativo della pianificazione), ma anche con la capacità  di trasformazione delle culture degli attori che producono il territorio e il paesaggio.
Ritengo che la via pugliese al piano paesaggistico si situi in un contesto in cui la Pianificazione non è (non è stata, non è ancora) la forma ordinaria di governo del territorio  e che per arrivarci gli sforzi compiuti dall’attuale amministrazione regionale per mobilitare  la società pugliese in questa direzione siano essenziali a compiere la trasformazione culturale necessaria. D’altra parte, il bilancio critico del territorio e del paesaggio della contemporaneità, sviluppato nell’ambito del primo seminario del Comitato scientifico (Natura e ruolo dei piani paesaggistici regionali) non ha risparmiato le Regioni dove la Pianificazione è da tempo il metodo di governo del territorio (ad esempio Emilia Romagna e Toscana), mostrando crudamente il divario fra piani e bassa qualità dell’urbanizzazione.
Dunque dopo il seminario la risposta unanime è stata: la Puglia non è trattabile come un “paese ancora insufficientemente pianificato” (che deve cioè imitare e raggiungere modelli emiliani), ma deve trovare una strada originale, nel vivo della propria autoriforma, al buon governo del territorio.
La ricerca di questa via si situa in un difficile equilibrio fra due tendenze opposte:
– la prima riguarda l’assenza di una cultura storica municipale, il protrarsi di un sistema decisionale patrizio, centralistico, esogeno e burocratico fin agli albori del novecento, una storia di lunga durata di dominazioni e dipendenze socioeconomiche esogene che si proietta sulla attuale persistenza di una dipendenza economica e di scarsa imprenditività in molti settori (dall’agricoltura al terziario) e sulla speculare inerzia burocratica della struttura amministrativa; inerzia che si accompagna a sua volta a politiche distributive, ovvero alla erogazione prevalentemente clientelare di ingenti finanziamenti pubblici; si tratta di elementi che parrebbero indicare come via “culturalmente” più efficace per il paesaggio un piano fortemente autoritativo di “comando e controllo”, cui peraltro pare alludere l’ultima versione del Codice di beni culturali e del paesaggio, atta a rinforzare il ruolo dello stato centrale nel governo dei beni paesaggistici;
– dall’altra un diffuso anarco-abusivismo privato (ma anche anarco-governo pubblico, ancora circa cento comuni con piani di fabbricazione, pochi adeguamenti ai PUG -Piano Urbanistico Generale- del DRAG –Documento Regionale di Assetto Generale-) e un brulicare di intrecci locali di interessi pubblici e privati; tendenze che si fronteggiano con le forti tensioni etiche di un ceto intellettuale cosmopolita, di un mondo associativo, di amministratori locali e, in parte, imprenditivo, fortemente motivati al cambiamento e al rinnovamento della cultura locale e del territorio verso l’autoriconoscimento identitario, la riappropriazione di percorsi di autodeterminazione culturale, economica, politica e la valorizzazione delle risorse endogene fra cui il paesaggio.
Siamo di fronte a un insieme fortemente innovativo di soggetti che parrebbe al contrario suggerire la via della costruzione di patti e contratti fortemente radicati nell’identità del luogo, capaci di ricomporre interessi particolaristici in un quadro di riconoscimento di beni comuni come il territorio, l’ambiente, il paesaggio. Valori questi su cui fondare un diverso sviluppo locale, vincendo “dal basso” l’abusivismo, il burocratismo, la dipendenza.
Questo quadro fortemente disaggregato fra pulsioni centralistico-autoritarie e tensioni civiche verso la cittadinanza attiva, parrebbe indicare alcune suggestioni strategiche per la “tipologia” del Piano paesaggistico della Puglia: un piano che sviluppi una forte processualità negoziale e partecipativa come strumento per la costruzione di un neomunicipalismo di cittadinanza attiva.”

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Perché le conferenze d’area: un tassello dell’organizzazione del processo
partecipativo per la produzione sociale del Piano

“Il piano paesaggistico, che è in primis finalizzato a denotare e rappresentare le peculiarità patrimoniali in campo ambientale, territoriale, paesistico, agroalimentare e culturale dei molteplici e diversificati paesaggi della Puglia, si pone come strumento per progettare coralmente un futuro volto a superare la dipendenza culturale e economica, cui ho fatto cenno nella premessa, che dall’agricoltura, all’industria di base al terziario, mortifica storicamente la capacità di autodeterminazione, autogoverno e sovranità della regione stessa. In questa prospettiva assumono importanza una serie di azioni e processi avviati durante la costruzione del piano finalizzati ad attivare percorsi di governance e di democrazia partecipativa di cui le attuali conferenze d’area sono un momento significativo.
Questi percorsi riguardano:

– il sito web interattivo, che ha lo scopo di raggiungere il maggior numero di cittadini, associazioni, produttori per la costruzione condivisa di una cultura del paesaggio, delle azioni di salvaguardia e valorizzazione;

http://paesaggio.regione.puglia.it

– il patto con i “produttori di paesaggio” (associazioni imprenditoriali in campo agricolo, artigianale, commerciale, turistico, edilizio, infrastrutturale e dei trasporti). In una prima serie di interviste ad attori privilegiati, si è delineato il quadro delle poste in gioco da parte dei diversi attori;

– l’istituzione di forme premiali (marchi di qualità paesaggistica, agevolazioni, incentivi) per agricoltori e operatori agrituristici e turistici che salvaguardano e restaurano il paesaggio rurale storico, le infrastrutture e gli edifici rurali tradizionali, la valorizzazione di luoghi di ospitalità diffusa nelle città storiche dell’interno;

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– i bandi (per idee progettuali e buone pratiche istituzionali) attivati dal Forum per il paesaggio;

– l’ attivazione dei progetti pilota sperimentali che intendono testare i diversi temi che riguardano gli obiettivi di qualità paesaggistica e i processi di governance e partecipazione del piano attraverso protocolli fra l’Assessorato all’Assetto del Territorio e specifici soggetti del territorio;

– le azioni di promozione della partecipazione attivate dall’Assessorato alla trasparenza della Regione, in collaborazione con l’Assessorato all’Assetto del territorio. Le azioni riguardano due settori fondamentali per estendere il processo partecipativo:
-la comunicazione (promozione dell’informazione sul Piano)
– lo sviluppo della cittadinanza attiva (workshop, forum, animazioni sociali, iniziative culturali, ecc).
– la promozione delle attività di valorizzazione turistica diffusa dei centri dell’interno
(azioni sperimentali nei comuni che partecipano ai progetti pilota)
– la pubblicazione dei quaderni del Piano, in primis gli atti dei seminari del Comitato scientifico.

Fonte: http://paesaggio.regione.puglia.it/images/area_download

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(Continua)

L’ultima spiaggia….non sarà l’ultimo scoglio….

12 martedì Nov 2013

Posted by terradegnazia in Ambiente, Editoriale, Paesaggio, Territorio

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di Giambattista Giannoccaro

Appena conclusa la stagione estiva ritornano anche in Puglia, e nello specifico sulla costa monopolitano-fasanese, tutti i problemi connessi al rilascio di concessioni demaniali a scopo balneare. Si susseguono denunce e segnalazioni da parte di liberi cittadini, che negli ultimi mesi hanno dato vita a comitati di salvaguardia della costa, relative a chiusura del libero accesso alle spiagge di stabilimenti già esistenti e chiusure di accessi per nuove concessioni su calette dove invece dovrebbe essere vietato l’accesso, la balneazione e la navigazione per motivi di dissesto  idrogeologico.

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Porto Marzano Piccolo – Monopoli (Foto di Salviamo Porto Marzano Piccolo)
L’accesso alla scogliera e alla spiaggia è impedito da una cancellata.

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Porto Marzano Piccolo (Foto di Salviamo Porto Marzano Piccolo)
Divieto di Accesso, Balneazione e Navigazione per Dissesto Idro-Geologico
Il cartello installato all’inizio dell’estate 2013 ora è svanito nel nulla.

La prima segnalazione parte da un gruppo di cittadini monopolitani pronti a salvaguardare il libero accesso alla loro piccola spiaggia di Porto Marzano Piccolo, che una mattina di ottobre 2013 si sono visti impedire l’accesso alla spiaggia dai tempi dei nonni liberamente frequentata. Il problema riguarda comunque l’intera fascia costiera ma la notizia che  lascia sconcertati è che la spiaggia in questione, come risulta dal SID Mit (Sistema Informativo  Demanio marittimo) è già da diversi anni privata come è privata la scogliera circostante.

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Porto Marzano Piccolo – Estratto dal SID marittimo
Linea blu > Linea di costa
Linea rossa > Dividente demaniale
Area grigia > Proprietà privata
Area gialla > Proprietà demaniale

Tutti ci chiediamo come sia possibile che una zona di demanio marittimo possa essere nelle mani di privati e questo ci deve far riflettere quali siano i destini delle nostre spiagge nel caso il governo proceda con la vendita di detto patrimonio, per recuperare somme necessarie per ripianare i conti dello stato con l’ennesima manovra di stabilità, ma soprattutto dobbiamo riflettere su quanto sia da stupidi(?) vendere un patrimonio che in realtà potrebbe fruttare molto più se gestito in maniera più intelligente e trasparente..

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Mentre ci accingiamo a pubblicare questo articolo dai senatori del Pd arriva un emendamento ‘fotocopia’ di quelli del Pdl sulla vendita delle spiagge. (l’Haffington Post) La proposta di modifica all legge di stabilità, firmata da Granaiola, Tomaselli, Albano, Caleo, Fabbri, Favero Marcucci, Padua e Vattuone, è sostanzialmente identica a quella presentata dal Pdl se non nella parte relativa alla proroga delle concessioni che non prevede il diritto di prelazione legale. Ma c’è già una retromarcia “Ho ritirato la mia firma dall’emendamento della collega Manuela Granaiola sulla sdemanializzazione delle spiagge, in quanto ad un più approfondito esame tale ipotesi risulterebbe difficilmente applicabile su scala nazionale”. Lo rende noto il senatore Andrea Marcucci

“Le aree ricomprese tra la dividente demaniale e la linea di costa occupata da manufatti di qualsiasi genere connessi al suolo, stabilmente destinate ad attività di servizi con finalità turistico ricreativa, ivi comprese le aree occupate da strutture e attrezzature anche amovibili asservite alla medesima attività – si legge nel testo – sono individuate con atto ricognitivo-dirigenziale dalle agenzie del demanio e riconosciute non più appartenenti a demanio marittimo con decreto interministeriale emanato dal ministro dei Trasporti e della Navigazione di concerto con quello delle Finanze sentita la Regione e l’ente locale competenti”.

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Come chiede la Commissione Europea con la Direttiva Bolkestein, approvata all’unanimità all’epoca di Romano Prodi,  per la Concorrenza e il Mercato Interno, nel 2015 i permessi per gli stabilimenti “dovrebbero” essere riassegnati con gara di evidenza pubblica. La proposta si pone l’obiettivo di “eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento dei prestatori negli Stati membri e alla libera circolazione dei servizi tra Stati membri nonché garantire ai destinatari e ai prestatori la certezza giuridica necessaria all’effettivo esercizio di queste due libertà fondamentali del trattato.”

La Commissione europea aveva aperto nel 2008 una procedura d’infrazione contro l’Italia per il suo sistema di rinnovo automatico delle concessioni, considerato un ostacolo al libero mercato. Il 13 maggio 2011, con Michela Vittoria Brambilla del Pdl ministro del Turismo, il governo aveva lanciato l’idea di un decreto che introduceva il cosiddetto “diritto di superficie” su coste e litorali per 90 anni, innescando un certo disappunto da parte di Bruxelles. Se i 90 anni non sono mai passati, l’articolo 11 della legge comunitaria adottata il 30 novembre 2011 ha consentito a Bruxelles di chiudere la procedura d’infrazione verso l’Italia eliminando il rinnovo automatico delle concessioni. Rinnovo automatico-proroga che, dunque, continua ad essere tirato fuori. Il risultato portato a casa è stato quello di ulteriori salatissime sanzioni.

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Oggi, prima che tutto ciò accada, l’Italia vorrebbe risolvere l’ennesimo papocchio in cui si è trovata, a causa del suo evidente malgoverno, di tanta malafede ed argomentazioni che non possono non far pensare che tutto ciò è orchestrato per soddisfare i soli interessi dei privati.

Da un articolo pubblicato su Il Fatto quotidiano online, blog di Fabio Balocco, 11 novembre 2013, relativo alla gestione dei beni demaniali da parte dello Stato, che “ è sempre più pronto a tagliare i servizi pubblici essenziali e sempre  più prono a soddisfare i desideri dei privati che prosperano sullo sfruttamento dei beni della collettività”.

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Secondo il WWF sui nostri litorali ci sono 12.000 stabilimenti balneari (erano 5.368 nel 2001, cioè meno della metà), uno ogni 350 metri, per un totale di almeno 18.000.000 metri quadri e 900 km occupati – ovvero quasi un quarto della costa idonea alla balneazione (lo sono 4.000 km sugli 8.000 km di coste italiane). Un giro di affari che interessa 30.000 aziende Un giro di affari con canoni spesso irrisori rispetto ai reali profitti delle strutture attuali, dove dall’affitto di sdraio e ombrelloni si è passati a vere e proprie ‘cittadelle permanenti’ di servizi commerciali, piscine, negozi, ecc,  favorito da un’applicazione normativa sulle aree demaniali che ha travalicato lo spirito della legge..

“Nel 2012 l’Agenzia del Demanio ha incassato 102,6 milioni di euro dagli imprenditori delle spiagge” continua Il Fatto Quotidiano, “in media, poco più di 3 mila euro a testa per stabilimenti che possono superare i 10 mila metri quadri e i 10 mila euro a testa di abbonamento stagionale, un inezia. Questo senza contare l’evasione fiscale relativa ai lauti guadagni. Guadagni che potrebbero essere addirittura un quintuplo dell’effettivo!.

Buona parte delle concessioni oggi sono state date senza gare ad evidenza pubblica e si rinnovano automaticamente alla scadenza. Chiaro che l’applicazione della “direttiva servizi” costituirà una bella svolta per il florido mercato delle concessioni marittime, e magari per i rapporti clientelari che intercorrono tra i gestori e le amministrazioni pubbliche. Però, se le spiagge prima del 2015 si vendessero, beh allora cambierebbe tutto. Povera, sempre più povera Italia.”

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E’ evidente l’ulteriore mala fede su cui si fondano le motivazioni di vendere il prezioso patrimonio pubblico, argomentando motivazioni di emergenza per mettere le mani su beni inalienabili e sempre a scapito della gente comune.

E’ evidente la necessità di regolamentare  la materia delle concessioni demaniali soprattutto la dove la peculiarità dei territori, come quelli pugliesi, dove le spiagge sono ridottissime e l’accessibilità non garantita a tutti a causa dell’inosservanza dell’abbattimento delle barriere architettoniche, non garantendo il libero accesso ai disabili,  agli anziani e alle famiglie con neonati.

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Pensiamo a gestirlo questo patrimonio. Probabilmente ne ricaveremo anche più di quanto si prospettano di ricavare i volponi che vogliono depredare l’ultimo angolo di spazio pubblico, l’ultima spiaggia … non sarà l’ultimo scoglio …

Ascolto il tuo Stomaco, Città

05 martedì Nov 2013

Posted by terradegnazia in Ambiente, Territorio, Urbanistica

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Carlo Petrini, Parco Agricolo Sud Milano, Random House, Robert Freudenberg

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Pubblichiamo con piacere questo articolo scritto e già pubblicato nel 2008 sul sito Mall, ma molto attuale ancora oggi a proposito del dibattito contro il consumo di suolo e per argomentare sulla necessità dell’istituzione di “Orti Sociali”, “Orti Urbani”, “Parchi Alimentari” e farsene una ragione, al di la di ogni ideologismo…. 

Solo quando l’ultimo fiume sarà prosciugato, 
solo quando l’ultimo albero sarà tagliato, 
solo quando l’ultimo animale sarà ucciso, 
solo allora capirai (uomo bianco) che il denaro non si mangia.

(Proverbio Indiano)

editing di Giambattista Giannoccaro

Sciopero selvaggio dei Tir e perversione del rapporto città/campagna. Una recensione a Plenty, Random House, 2007 e un articolo di Carlo Petrini da la Repubblica, 13 dicembre 2007

di Fabrizio Bottini

Fa benissimo, Carlo Petrini [vedi articolo riportato di seguito]a ricordare a botta calda, l’indomani dello “scampato pericolo” degli scaffali vuoti nei supermarket per via del blocco dei Tir, come una certa autarchia locale, quella che spesso si riflette nella cultura Slow Food o della ristorazione legata al territorio, avrebbe parecchio aiutato, e possa ancora aiutare, in questi casi.
Evoca giustamente, l’articolo di Petrini, immagini che ci sono ancora assai vicine di campagna italiana, piccoli produttori, prodotti di alta qualità, città che per quanto mostruosamente cresciute spesso mantengono ancora qualche contatto col proprio hinterland rurale, che rifornisce in parte anche ristoranti e mercati rionali.
Quello che forse il lettore di Petrini non coglie in pieno, però, è da un lato l’estrema modernità di questa lettura del rapporto fra città e campagna, dall’altro il fatto che si tratta di un affascinante nuovo campo di ricerca, sperimentazione, ambito di sviluppo socioeconomico.

I moltissimi firmatari dell’ Appello Parchi di eddyburg, hanno sicuramente colto al volo uno degli aspetti immediati di questo tentato colpo di mano, evidentemente dettato dalla cultura dei palazzinari: si trattava di un attentato all’ambiente e alla vivibilità, soprattutto metropolitana, visto che il primo obiettivo era il Parco Agricolo Sud Milano, dove da lustri grandi e piccoli operatori non vedono l’ora di “fruire” (è il temine usato dall’assessore comunale milanese Masseroli) di questi spazi lasciati inutilmente a cose poco produttive tipo erba, alberi, acque, animali …
Anche chi ha aderito all’appello, in maggioranza, non ha però forse colto l’aspetto, per niente secondario, di quell’aggettivo, “agricolo”, abituati come siamo a considerare questa attività, nel migliore dei casi, come una specie di zoo socioeconomico senza recinti, dove quella specie di panda col cappello che appare ai più il contadino si aggira svolgendo attività residuali. Insomma, il suo vero lavoro è di esistere, farsi fotografare dai bambini in gita scolastica insieme a galline e rotoballe, e al massimo come spiega anche l’autorevole Cpre britannica in un suo recente rapporto , garantire un’ottima manutenzione a prati, siepi, drenaggi, prevenire il dissesto ecc.

IMG_0666Un’agricoltura che sempre più, insegna la pianificazione territoriale, si deve invece legare strettamente ai modi di progettare la città moderna, non solo come versione aggiornata del grande parco urbano per andare in bicicletta o guardare un paio di vacche al pascolo, ma entrare a pieno titolo fra le attività economiche centrali e strategiche, assai più all’avanguardia che non i pensosi slanci plastici delle architetture griffate che spesso vorrebbero occuparne gli spazi, proprio in nome di una mal concepita idea di modernità (quando non in palese malafede come nel caso milanese citato). 
In un interessantissimo articolo pubblicato circa un anno fa, il direttore della rivista ufficiale della Regional Plan Associationdi New York, partiva da uno spuntino nella pausa di mezzogiorno per ricostruire un bozzetto di mondo affascinante: una mela comprata al farmer’s market nella zona di Times Square, che propone solo prodotti certificatamene regionali, serviva all’ampia cultura geografica, tecnica, socioeconomica dell’intellettuale per tentare un recupero del rapporto fra la grande metropoli e il suo territorio, per quasi due secoli (con l’eccezione del Central Park e poco altro) usato solo come piattaforma su cui avvitare grattacieli e edilizia minore residenziale, produttiva, commerciale.

Un modo assai interessante di raccontare da una prospettiva personale al tempo stesso insolita e molto familiare tutto ciò, è quello scelto da una coppia di giornalisti, Alisa Smith e James B. MacKinnon, che col loro Plenty (letteralmente:Abbondanza, Random House, 2007), descrivono un anno vissuto niente affatto pericolosamente, fra gioie, perplessità e scoperte, della “dieta delle cento miglia”. Ovvero, mangiare nulla che non sia coltivato entro un raggio di circa 150 chilometri da casa. La faccenda diventa piuttosto interessante quando si consideri che “casa” sta nel centro di Vancouver, Columbia Britannica canadese, città famosa per le sue politiche urbanistiche tese a limitare il consumo di suolo, vicina all’Oceano Pacifico, alle montagne, ma non esattamente un piccolo centro, né al centro di ubertose campagne, né in area che noi chiameremmo temperata, come si capisce immediatamente dalla carta geografica.
E come si capisce immediatamente sin dalle prime efficacissime, battute che la coppia dedica a una di quelle miracolose primavere del Nord, col fango e le ultime croste di neve che fanno spazio a un’inusitata esplosione di natura. Le prime verdure nell’orto, i germogli nei parchi, nei fossi, sui cigli dei terrapieni vicino alla superstrada … una ricchezza forse inusitata, ma che genera subito l’angosciosa domanda: tutto bellissimo e magari anche buonissimo, ma basta a garantire una dieta equilibrata, sali, zuccheri, proteine, vitamine ecc.?

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Ed è proprio questa laboriosa ricerca, fra gli equivalenti locali del mercato rionale italiano raccontato da Carlo Petrini, o delfarmer’s market di New York, le banchine del porto dove attraccano i pescatori, la fascia suburbana esterna dove qualche eccentrico sperimenta le colture più audaci, a raccontare il rapporto fra città e campagna in una prospettiva assai realistica da XXI secolo. Dove naturalmente si mescolano spazi, figure e anche prodotti che spesso non hanno nulla a che fare con la “tradizione”, ma che possono contribuire a costruirne una nuova, come le verdure cinesi per la miriade di piccoli esercizi, o qualche esperimento a mezza strada fra la pura stravaganza e la straordinaria innovazione. Ma emerge, per converso, anche qualcosa di terrificante quando si pensa agli ettolitri di gasolio bruciato ogni giorno, ogni minuto, per far convergere sulla città, attraverso i canali “tradizionali” della grande distribuzione organizzata, prodotti succedanei a quelli reperibili dietro l’angolo, facendoli invece spostare lungo la filiera degli infiniti e costosissimi (per il portafoglio e l’ambiente) passaggi e intermediazioni.
Ci sono anche motivazioni pratiche, dietro a questa neotradizione dello shopping mall. Ad esempio, di solito chi non sta ad esempio a Cuba, o per altri versi a Ferrara, inizia ad avere problemi per fare una cosa con cui quasi tutti iniziano le giornate: due cucchiaini di zucchero nel caffè. Alisa e James devono passare da subito al miele, scoprendo via via la rete dei produttori locali, il rapporto con le stagioni, le trasformazioni ambientali, l’urbanizzazione selvaggia che avanza.

E avanti così, con la voglia di pane che si trasforma in una caccia a improbabili coltivatori di grano nell’area metropolitana di un capoluogo del nord, con risvolti inquietanti dentro a silos abbandonati in balia dei ratti. O la necessità fisiologica del sale, forma antichissima di moneta, che nella città affacciata sul Pacifico diventa occasione per una sorta di matrimonio del mare, prelevando da una barca a remi una grande quantità d’acqua e facendola poi bollire fin quando compaiono quasi magicamente i cristalli bianchi.
Il tutto condito da scenette di vita familiare e amicale, di raccolta di more nella canicola estiva dei roveti sotto l’autostrada, di bisticci e bronci davanti al pentolone della conserva di pomodori per l’inverno. Parafrasando Alberto Savinio, verrebbe da dire “ascolto il tuo stomaco, città”. E dal punto di vista della cultura urbanistica, sociale, ambientale che questo pur “leggero” resoconto da Vancouver e dintorni evoca, emerge l’esigenza di superare una certa sedimentata prospettiva. Certamente quella della città che cresce a macchia d’olio, infinita, mastodontica, alimentandosi con tubi che risucchiano risorse da sempre più lontano, e scaricandosi più o meno addosso tutti gli scarti. Superare l’idea della città macchina, non solo quella degli architetti modernisti fatta di angoli retti, cemento, e idee tetragone, ma anche quella letteraria dei “ventri” ottocenteschi, che da Sue attraverso la Serao fino alle processioni di Zola, dei carri che dalla campagna sciamano fino alle Halles, propongono un rapporto gerarchico fra la pietra e la terra.

C’è da sperare, che magari lo sciopero dei camionisti faccia riflettere chi di dovere, anche qui da noi, sulla necessità di superare davvero le chiacchiere sulla “misura d’uomo” o addirittura sullo “sviluppo sostenibile”, fatte a solo uso di qualche dichiarazione televisiva o elettorale. Ascolto il tuo stomaco, città, e credo che dovresti curarti l’ulcera. Urgentemente.

Nota: fra i testi e temi citati nell’articolo si vedano anche le traduzioni in italiano di Susan Cozier, La Dieta dei 150 Chilometri, E/Environmental Magazine, 15 settembre 2007; e Robert Freudenberg, Comprare locale aiuta a salvare il mondo? Spotlight on the Region, dicembre 2006 (f.b.)

Carlo Petrini, La rivincita del localismo, la Repubblica, 13 dicembre 2007

È una pace fragile quella siglata tra gli autotrasportatori e Palazzo Chigi, un’intesa che lascia al Paese una sensazione di grande debolezza strutturale visto che sono bastati due giorni per mettere in ginocchio quasi tutte le città.
Tuttavia, sia pure senza volerlo, il blocco dei Tir ci ha dato una risposta laterale e straordinaria, che se ne sta lì, quieta e sorridente, in attesa che qualcuno la noti e gli sorrida di rimando. «Nel mondo vì sono tante città, una te l’ho già detta, quale sarà?». Era un giochino che, dalle mie parti, ci facevano da bambini e che ci insegnava a vedere le soluzioni dentro i problemi (Mondovì era la città nascosta nella domanda).
Lì dove? Non certo sulle autostrade intasate, né nei telegiornali che hanno alternato con zelo la par condicio tra padroncini arrabbiati e politici indignati e quella tra gli automobilisti che avevano ancora abbastanza benzina per andare a bloccarsi in una coda per ore e quelli che invece sono rimasti fuori da quella follia solo perché il benzinaio è restato senza carburante.
Ma tra le tante interviste televisive alcune hanno fatto centro, sia pure senza saperlo. In un mercato rionale di Roma i giornalisti hanno cercato di indagare sulla situazione delle vendite al dettaglio di generi alimentari. I venditori quasi si scusavano: «Oggi c’è poco, è arrivata solo la roba locale per via dello sciopero dei Tir…». La telecamera si è allargata su una specie di Bengodi di verdure di stagione, locali, un commestibile giardino d’inverno ricco di tutti i colori, i profumi e i sapori che l’agro romano può offrire. Mancavano le banane, i manghi, le fragole? Evviva. Mancavano i gamberetti del Pacifico e la polpa di granchio? Perfetto.
Certo Roma ha intorno a sé un’areale agricolo che altre città non possono nemmeno sognare. Però usiamo questa vicenda come il paradigma della storia che stava nascosta dietro i tir, perché non ci sono solo le grandi città, in Italia; ci sono centinaia di città piccole e medie che hanno i campi e gli orti appena fuori dal centro storico.

171450581-15d1e8f1-3924-4ccf-9404-5c6f0afd3a97Le economie locali non le fermi tanto facilmente, perché non hanno molti bisogni. Chi ha molti bisogni ha molti padroni. Le economie locali sono libere perché sono piccole e agili. Perché sono adattabili e flessibili. E sono così perché hanno un alto tasso di biodiversità e perché la soddisfazione delle loro esigenze è al centro di un sistema paritario, di dare e avere, che invece non può essere il paradigma della grande distribuzione. Le economie locali non hanno padroni, hanno una rete di interazioni. E parte di questa rete è costituita proprio dai consumatori, i quali si possono rilassare: escano a piedi, facciano una passeggiata nel centro storico delle loro città, arrivino fino al più vicino mercato, facciano due chiacchiere con i venditori, che magari sono anche agricoltori, acquistino frutta e verdura locali di stagione e quanto il loro territorio offre. Poi tornino a casa o in ufficio (anche uno spuntino può essere arrivato in Tir o essere stato prodotto localmente) e si godano un pasto a chilometri zero, a carburante zero, a emissioni zero, a nervosismo zero.

Città e campagna: tutti i colori del verde (III parte)

03 domenica Nov 2013

Posted by terradegnazia in Urbanistica

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La città conquistatrice

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“…diffusion is too kind of word. … In bursting its bounds, the city actually sprawled and made the countryside ugly, uneconomic and of doubtful social value…” (Earle S. Draper, 1937)

Intervento di Fabrizio Bottini al 1° Camp Terra d’Egnazia 21 sett 2013                editing per il web di Antonello Martinez Gianfreda

Versione semplificata e abbreviata del capitolo introduttivo a                               “La Città Conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione”.                                ed. Corte del Fontego, Venezia 2012.  di Fabrizio Bottini

(III Parte)

Sistematicamente scomposta nei suoi elementi costitutivi, la grande città moderna è anche più gestibile con gli strumenti del progetto architettonico a scala urbana, ed entra qui in campo il ruolo più noto del ‘900, la figura dell’architetto-urbanista (purtroppo spesso confusa con l’esperto di città e territorio tout court), nella prospettiva culturale così come nella realtà professionale e nell’immaginario collettivo. Non aveva certo sempre occupato un ruolo centrale, se si pensa al lungo primato degli igienisti, o a figure particolari come i riformatori sociali, gli esponenti di discipline scientifiche o umane. In Italia quando si comincia a parlare di piani di grande dimensione, la prima proposta di studi per formare un urbanista è lontanissima dalla figura dell’architetto.

La Scuola di Alti Studi Municipali (1926). scompone le materie per la gestione e progettazione urbana in una decina di ambiti diversi, sociali, tecnico-edilizi, amministrativi, ambientali, unificati dalle scelte politiche. Vincerà però, forse anche davanti alla smisurata difficoltà dei problemi da affrontare, l’architetto-urbanista dotato soprattutto di intuizione, capacità di gettare il cuore oltre l’ostacolo senza perdere di vista la realtà. Tutto grazie anche all’idea di quartiere, interpretata dal progetto in infinite varianti.

Nell’articolo intitolato Questioni Urbanistiche, Gustavo Giovannoni nel 1928 dà per scontato e ovvio il primato dell’architettura nell’idea di città e territorio. Parte dalla dimensione territoriale regionale, spazio dilatato oltre le estreme frange periferiche. Un ambito che può essere anche rurale, punteggiato di edifici sparsi, e attraversato solo da strade e ferrovie. Anche la città è ritagliata nello stesso modo, da strade e binari, che definiscono i quartieri. Quelli vecchi e quelli nuovi, i primi da conservare, oppure adattare, secondo un adagio caro all’Autore, alla vita moderna, con la tecnica cosiddetta del diradamento edilizio. Nel periodo tra le due guerre, in Italia e non solo, trionferà questo genere di approccio architettonico-progettuale, in cui è protagonista il dialogo spazi definiti, che mette in secondo molti degli aspetti cruciali del territorio. Le utopie si svuotano di molti contenuti sociali per incarnarsi nei profetici estremi di certi schizzi di Le Corbusier, o alla più compiuta ma non meno iperbolica Broadacre di Frank Lloyd Wright, dove la città scompare del tutto, sostituita da una specie di autostrada pigliatutto, e naturalmente ad elevata qualità architettonica.

L’ideologia dell’anticittà comporta una implicita superiorità dell’ambiente rurale, luogo di innocenza e saldi valori contro la corruzione della metropoli, dove all’abbondanza di spazi verdi figli si aggiunge la supposta maggiore solidità del nucleo familiare. Fisicamente, si tratta di spazi molto semplici, predomina la casetta unifamiliare isolata nel suo lotto e, attorno, le strutture viarie minime per metterla in rapporto col resto del mondo. Immagine idilliaca ma falsa, come iniziano a verificare alcuni osservatori più attenti al quadro territoriale che alla qualità architettonica di singole componenti.

I gruppi per la tutela del paesaggio rurale, già negli anni ‘20 notavano un rapporto squilibrato fra l’urbanizzazione cosiddetta a nastro sulle grandi arterie di comunicazione, poco più profonda del lotto edificabile, e il degrado del territorio. In Nord America, si è già nella prima fase di automobilismo di massa, ben riassunta dai cortei di vecchi camioncini carichi di famiglie contadine descritti da John Steinbeck nel suo Furore!  Tocca alla sensibilità Earle Draper, responsabile per la pianificazione territoriale della Tennessee Valley Authority, pronunciare pubblicamente per la prima volta la parolaccia, nel 1938, scusandosi doverosamente per la volgarità: Sprawl. La moltiplicazione delle casette unifamiliari e dei piccoli edifici di servizio, ormai raggiungibili facilmente col mezzo di trasporto individuale, sta inesorabilmente trasformando le campagne in una triste caricatura della città. E in gioco non c’è solo un pur importantissimo fattore estetico e identitario, ma un dissennato consumo di risorse non rinnovabili.

Nel secondo dopoguerra il rinnovato interesse per i temi della città, dipende dall’emergenza della ricostruzione edilizia dei centri danneggiati dagli eventi bellici, ma anche dalle prospettive di crescita economica nel segno dell’industrializzazione, della crescita dei consumi di massa, della motorizzazione privata. La nuova parola d’ordine è “decentramento”, ovvero invasione pianificata delle campagne da parte della città. Molti studiosi dell’epoca sottolineano in questo il peso (la cosa in effetti era a portata di mano già nel periodo successivo alla prima guerra mondiale) degli effetti devastanti dei bombardamenti aerei, e lo choc collettivo per le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Si delineano gli scenari della futura guerra fredda, e tradurre in pratica i principi della cosiddetta urbanistica antiaerea ora non pare più esagerato.

Gli istituti superiori cominciano ad attrezzarsi per i grandi progetti, per inserire nei curricula materie un tempo lasciate alla pura sensibilità individuale (come le scienze sociali), e finalmente per aprire la specializzazione in urbanistica ai diplomi in ambiti diversi da quelli dell’architettura e dell’ingegneria civile. Un mondo che considera la gestione urbana e del territorio integrata ai sistemi di welfare, richiede approcci complessi e partecipativi, a partire dalla questione di genere. Perché abbiamo bellissime cucine e pessime città, si chiede un sociologo britannico? E risponde: perché c’è troppa poca sensibilità femminile applicata all’urbanistica. Più in generale, si potrebbe dire, c’è troppa poca formazione in certi aspetti dell’osservazione sperimentale ed empirica, e poco uso degli eventuali risultati di queste ricerche.

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Da qui partono almeno due percorsi fondamentali per gli anni a venire. Quello di Jane Jacobs che pubblica per la prima volta un saggio maturo sul tema del rapporto fra complessità urbana e trasformazione urbanistica, che sarà alla base de La vita e la morte delle grandi città; e quello di William H. Whyte che sperimenta tecniche scientifiche di analisi della vita di strada e dei suoi rapporti con le norme edilizie e sul traffico. A lui devono moltissimo anche studiosi successivi molto più noti, a partire dal danese Jan Gehl e altri. Irrompe il cittadino in quanto tale, a sostituirsi alla logica astratta degli specialisti che era subentrata per tutto l’arco centrale del ‘900.

Nel secondo dopoguerra molte grandi metropoli diventando anche (meritatamente o no) simbolo di emarginazione e degrado. Chi può permetterselo, opta per la fuga dalla città fai-da-te, o nel caso americano approfitta della grande offerta speciale del dopoguerra: prestiti e mutui agevolati per l’acquisto di casa e beni di consumo durevole, grandi investimenti stradali, enormi quartieri suburbani di iniziativa privata. Il suburbio americano (in qualche modo poi imitato in tutte le parti del mondo negli anni successivi) è una frattura col pensiero urbanistico. Si lega invece alle forme più estreme e individualiste dell’approccio degli architetti, dalla citata Broadacre di Wright al meno noto modello lineare della Roadtown di Edgar Chambless, che già in epoca ferroviaria voleva “come Mosè” indicare al suo popolo la via per la nuova frontiera, portandosi appresso il guscio della casa, e lasciando la città al suo destino. Anche un altro americano all’alba del XX secolo si era detto dello stesso parere. Per la città moderna c’era una unica soluzione possibile: scomparire. Si chiamava Henry Ford.

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The modern city has been prodigal, it is today bankrupt, and tomorrow it will cease to be” (Henry Ford, My life and work, 1922)

Per tutte le generazioni dal secondo dopoguerra a oggi l’idea di città conquistatrice, ovvero di uno stile di vita urbano tendenzialmente universale e pervasivo, si applica in realtà indifferentemente alla triade di ambiti che si è provato a distinguere in questa nota. Quello urbano propriamente detto, dallo spazio storico alla periferia; quello rurale, dove alla qualità di insediamento sparso si affianca in tutto o in buona parte il riferimento sociale ed economico ad attività locali legate al territorio; buon ultimo, ma ovviamente non in ordine di importanza, la dispersione suburbana ed esurbana, che mescola confusamente elementi fisici e sociali costitutivi della città, della campagna, a volte anche della natura incontaminata, spesso proponendone una incomprensibile mescolanza. A volte incomprensibile anche per chi ci abita, sempre insostenibile per il resto del mondo, quando induce spreco di risorse, esasperazione dei consumi individuali, mortificazione delle relazioni sociali rarefatte sino all’isolamento della famiglia nucleare.

C’è molto da riflettere, insomma, sul tema dell’identità urbana, e del suo rapporto con l’ambiente fisico, oltre che con l’immaginario collettivo.

Fabrizio Bottini

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