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Officine di Porta Romana – Umberto Boccioni – 1908
Intervento di Fabrizio Bottini al 1° Camp Terra d’Egnazia 21 sett 2013 editing per il web di Antonello Martinez Gianfreda
Versione semplificata e abbreviata del capitolo introduttivo a “La Città Conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione”. ed. Corte del Fontego, Venezia 2012. di Fabrizio Bottini
II Parte
A raccordare la città nuova e quella rinnovata, la stazione ferroviaria. Da quel punto che si irraggiano i grandi viali, spesso alberati, spesso allineati da edifici importanti e simbolici, l’albergo, le poste, la banca. Il viale della stazione punta dritto verso il centro antico, aprendosi la strada finché può nell’intrico della città tradizionale, e sull’altro versante si inoltra nella campagna extra moenia, dove cominciano a crescere i nuovi quartieri. È la periferia, ciò che campagna non è più e città non lo è ancora e che cancella definitivamente l’antica separazione raccomandata dal profeta Isaia, sostituendo allo spazio definito un flusso. Tra i quadri che cercano di cogliere questa condizione di precarietà, val la pena ricordare le Officine di Porta Romana di Umberto Boccioni che pur dipinto nel 1908 riassume lo spazio suburbano che caratterizza tutta la seconda metà del XIX secolo. Una larga strada, tracciata attraverso la campagna abbandonata, è percorsa da decine di pedoni, e qualche carretto, fino all’orizzonte. Edifici quasi mai conclusi e formalmente definiti suggeriscono un immenso cantiere permanente, e le ciminiere confermano la natura industriale. Nessuna traccia di ciò che chiamiamo città: nessuna via, salvo quel nastro stradale e i pochi viottoli; nessuna piazza salvo gli slarghi per girare un carretto. I personaggi umani non sono affatto protagonisti, ma semplici comparse: per far funzionare la macchina della produzione, o osservare perplessi ciò che cresce attorno. Forse, negli anni a venire, questa periferia sarà città, ma oltre l’orizzonte ci sarà ancora uno spazio immerso nel flusso della città che avanza conquistatrice. Nella città antica, sul tavolo operatorio del progettista/chirurgo il tessuto tradizionale smette i panni della massa brulicante e sconosciuta per diventare “organismo”, dissezionabile per componenti, e poi ricomponibile nel piano regolatore. Riga, squadra e compasso ridisegnano anche la città tenendo conto degli studi sociali e sanitari, e la città è ritagliata dalle linee della conoscenza scientifica: zone classificate omogenee entro cui trovano posto e senso dati statistici, sociali, sanitari, le aspettative per la città futura, e si definisce una mappa complessa. Nasce l’urbanistica moderna, aprendosi la via fra il nucleo antico e la periferia in espansione di tutte le città in crescita: non più solo architettura grandiosa o ingegneria utilitaria, o slancio a migliorare le condizioni dei più sfortunati. Con l’estendersi della rete ferroviaria, inizia però anche un’altra storia, diciamo sul lato opposto del viale della stazione, ma molto più lontano della periferia dipinta da Boccioni: nasce il suburbio moderno, il quartiere immerso nel verde che imita la campagna e si fregia dell’affascinante titolo di città giardino. Molti conoscono la città giardino del riformista inglese Ebenezer Howard, descritta nel suo famoso libretto del 1898 come impresa cooperativa di lavoratori, in cui si integrano la coltivazione dei campi, l’attività industriale, quartieri salubri e parchi. Ma Garden City era anche il motto di Chicago a metà ‘800 o il nome di una speculazione privata, iniziata verso il 1870 a Long Island, New York. Alexander Stewart, magnate dei grandi magazzini alla francese (importando negli Usa quello descritto da Zola nel Paradiso delle Signore), investe in ferrovie, compra terreni e immagina la città giardino, quartiere per le famiglie dei facoltosi newyorchesi, raggiungibile dall’ufficio di Manhattan in un paio d’ore circa. Non è ancora il classico quartiere suburbano dell’automobilismo di massa, ma ne ha già tutte le caratteristiche di mercato: si rivolge più alle signore che ai mariti, canta la gioia di riscoprire la natura senza rinunciare alle comodità della vita moderna, lontano dalla città, dai rumori, dalla criminalità. Il paradiso immerso nel verde a un tiro di sasso dal centro è servito, insomma.
Pëtr Kropotkin Ebenezer Howard
Ma chi mira al profitto fa paura il ragionamento del geografo Pëtr Kropotkin, che propone di ricomporre città e campagna in un sistema equilibrato dove usando il titolo del suo libro possano convivere in armonia Campi, fabbriche, officine. Con idee del genere Kropotkin è ricercato dalla polizia di tutta Europa, mentre il contemporaneo Ebenezer Howard con idee quasi identiche (ma che non toccano il tema della proprietà) si merita il plauso di tutta la borghesia e pure della nobiltà. In cosa si distinguono in sostanza le due città giardino? Entrambe sono gradevoli e piene di vita, occasione di lavoro e socialità, immerse in un verde niente affatto ornamentale, ma agricolo e produttivo, secondo i criteri dell’epoca anche rispettoso dell’ambiente. Ma una ha qualche possibilità di successo, l’altra no. Kropotkin è perseguitato perché mette in discussione l’ordine costituito, dei rapporti tra capitale e lavoro, e in fondo tra la città e la campagna. Da una buona efficienza applicata con sensibilità tecnica, ci ricorda il principale manualista italiano del primo ‘900, Antonio Pedrini, nascono quasi automaticamente anche gli altri due caratteri fondativi della città ideale, ovvero giustizia distributiva delle qualità urbane, e bellezza a disposizione di tutti negli ambiti pubblici, e nei rapporti dello spazio urbano con il paesaggio circostante. Esiste secondo la cultura degli ingegneri igienisti ottocenteschi un rapporto diretto fra salute ed estetica: la bella piazza sarà anche quella che meglio saprà valorizzare i propri spazi e gestire tutte le attività umane che la rendono tale. Considerazioni di buon senso, ma il fatto nuovo è che a cavallo fra XIX e XX secolo queste informazioni assumono la forma della comunicazione di massa in volumetti tascabili come quelli che pubblica Ulrico Hoepli a Milano. L’urbanistica moderna è fondamentalmente democratica, diversa sia dall’impianto autoritario delle decisioni nella città fortezza, sia dalla partecipazione elitaria del borgo di commercianti. Coinvolge strati sempre più ampi di popolazione, sia nella forma ovvia delle elezioni, sia nella formazione di un’opinione pubblica locale influente. A partire dall’educazione dei cittadini: chi conosce l’urbanistica saprà gestire meglio la città futura, amministrandola come si fa per casa propria: al meglio. E per educare il cittadino bisogna partire da quando è giovane, come a Chicago dove nelle scuole l’economia urbana diventa materia obbligatoria, con un suo testo adottato ufficialmente a partire dal 1911. Una serie di letture ed esercizi in cui si mescolano conoscenze storiche, estetiche, sociali, di impegno civico, e dove con la guida dell’insegnante gli studenti potranno seguire i vari aspetti della vita urbana, paragonata a quella di un nucleo famigliare allargato. Grande successo editoriale: Economia Municipale (noto anche come Wacker’s Manual dal nome dell’ideatore) sarà ristampato in edizioni successive sino agli anni ’30, contribuendo a formare diverse generazioni di abitanti. Anche secondo l’urbanista britannico Patrick Abercrombie compito dello stato moderno è quello di insegnare cittadinanza istruendo sul territorio, la geografia, la società. Per non parlare dei vantaggi per l’esercito, di avere soldati in grado di muoversi con cognizione su vari tipi di terreno. Si propone così di introdurre la geografia urbana e territoriale fra le materie obbligatorie degli istituti superiori, emancipando in pratica l’urbanistica dall’approccio solo ingegneristico,verso una maggior apertura interdisciplinare e sociale. Con il XX secolo si entra nella fase in cui l’ordine urbano inizia davvero a imporsi come conquistatore di enormi spazi, dove l’elemento naturale ancora domina, ma in qualche modo per gentile concessione. Sintomatico della condizione moderna, un visionario testo dell’ambientalista Benton MacKaye propone migliaia di chilometri di una catena montuosa, estesa sul territorio di diversi Stati del Nord America come una sorta di complemento alle metropoli delle pianure. Anticipando di fatto la teoria della Megalopoli di Jean Gottmann, formulata proprio su quel territorio della costa atlantica degli Usa. Il Sentiero sui Monti Appalachi è un “piano regionale” di parco complementare all’area metropolitana, di enorme articolazione complementare delle due entità della città e della campagna. Una catena montuosa coi suoi boschi e corsi d’acqua, smette di essere la meta di alpinisti borghesi in cerca di avventura per diventare spazio per una frequentazione di massa, e sbocco di tensioni occupazionali e motivazionali. Più vicino ai criteri del piano regolatore urbano, anche se su dimensioni ancora enormi, lo schema regionale per l’area di New York i cui studi iniziano nel 1922, coordinato da uno dei protagonisti del movimento per la città giardino britannica, ex amministratore di Letchworth, Thomas Adams. Proprio il movimento della città giardino ha intuito che per rispondere agli squilibri della città-macchina industriale, questa va ammaestrata come un grosso animale selvatico, e resa più docile al servizio all’uomo. Il Regional Plan for New York and its Environs sarà un lungo processo di studio e consultazione multidisciplinare sulll’intero periodo dall’immediato primo dopoguerra agli anni del new deal di Roosevelt, e che resta vivo sino ai nostri giorni. L’idea di partenza è di applicare all’intera zona metropolitana una serie di riforme urbanistiche già consolidate nella città centrale.

Il Re e la Regina aprono il corteo inaugurale che taglia il nastro dell’Autostrada dei Laghi – Milano 1924
Un’altra innovazione tecnica, dall’altra parte dell’Atlantico, completa nel 1924 il quadro: in una bella mattina di sole, alla periferia orientale di Milano, fra risate di signore eleganti e sguardi alteri di baffuti dignitari, l’auto col Re e la Regina apre il corteo inaugurale che taglia il nastro dell’Autostrada dei Laghi, la prima del mondo. Si aprono nuovi immensi territori per qualcosa di assai meno elegante del corteo reale, ossia l’esplosione edilizia dei piccoli centri. Nelle circoscrizioni ex rurali attraversate dai nuovi flussi di mobilità, si crea quello che Benton MacKaye definisce road-slum, ovvero l’antenato di tutte le fasce stradali degradate, più o meno legali, fatto di edifici commerciali, residui di residenza rurale, stazioni di sevizio, piazzali, chioschi, insegne. Alessandro Schiavi riflette su questo tema: il piccolo comune non può certo esprimere una cultura di piano adeguata alla dimensione della sfida posta dalle autostrade. Che fare? Iniziare innanzitutto a pensare l’intera area, per quanto grande, come un unico organismo, e in questa prospettiva provare ad esprimere un programma generale che possa coordinare tutte le trasformazioni, in corso e nel futuro prevedibile: strade, ferrovie, ponti, grandi nuclei edilizi, parchi. Per farlo ci sono due percorsi: uno dall’alto verso il basso, in cui un ente amministrativo responsabile di una grande territorio vigila sull’equilibrato evolversi delle aree interessate da una grande infrastruttura viaria; uno partecipativo, in cui i piccoli comuni si associano in una entità maggiore, grande quanto il problema da risolvere. Esistono ormai due dimensioni apparentemente inconciliabili: la città produttiva e dei flussi, nella quale ci si sposta da casa all’ufficio alla fabbrica ai grandi servizi; e quella dell’abitare, della famiglia, delle relazioni amicali. Per la prima volta negli anni ’20 il tema trova una soluzione sistematica nelle ricerche del sociologo Clarence Perry, che del quartiere, o unità di vicinato, individua alcuni capisaldi essenziali, di tipo sia quantitativo che qualitativo. Sarà inserito nelle grandi maglie stradali e collegato ad esse, ma la sua caratteristica organizzativa principale sarà la pedonalità. Quindi non è attraversato da arterie di comunicazione di rango cittadino, è fortemente scoraggiato il traffico veicolare di attraversamento, la distanza massima di un punto qualsiasi al nucleo centrale di servizi non supera qualche centinaio di metri. Abitanti, in linea di massima non oltre 10-15.000 persone, su cui modulare l’offerta di servizi pubblici e privati, dal commercio al verde. Nodo sociale e spaziale di tutto l’organismo quartiere sarà la scuola dell’obbligo. Come si intuisce, si tratta né più né meno del quartiere così come lo conosciamo ancora oggi.
(continua)