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Archivi tag: Fabrizio Bottini

Città e campagna: tutti i colori del verde (II parte)

22 martedì Ott 2013

Posted by terradegnazia in Urbanistica

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Ebenezer Howard, Fabrizio Bottini, La città conquistatrice, Petr Kropotkin, Porta Romana, Umberto Boccioni

Boccioni

Officine di Porta Romana – Umberto Boccioni – 1908

Intervento di Fabrizio Bottini al 1° Camp Terra d’Egnazia 21 sett 2013                editing per il web di Antonello Martinez Gianfreda

Versione semplificata e abbreviata del capitolo introduttivo a                               “La Città Conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione”.                                ed. Corte del Fontego, Venezia 2012.  di Fabrizio Bottini

II Parte

A raccordare la città nuova e quella rinnovata, la stazione ferroviaria. Da quel punto che si irraggiano i grandi viali, spesso alberati, spesso allineati da edifici importanti e simbolici, l’albergo, le poste, la banca. Il viale della stazione punta dritto verso il centro antico, aprendosi la strada finché può nell’intrico della città tradizionale, e sull’altro versante si inoltra nella campagna extra moenia, dove cominciano a crescere i nuovi quartieri. È la periferia, ciò che campagna non è più e città non lo è ancora e che cancella definitivamente l’antica separazione raccomandata dal profeta Isaia, sostituendo allo spazio definito un flusso. Tra i quadri che cercano di cogliere questa condizione di precarietà, val la pena ricordare le Officine di Porta Romana di Umberto Boccioni che pur dipinto nel 1908 riassume lo spazio suburbano che caratterizza tutta la seconda metà del XIX secolo. Una larga strada, tracciata attraverso la campagna abbandonata, è percorsa da decine di pedoni, e qualche carretto, fino all’orizzonte. Edifici quasi mai conclusi e formalmente definiti suggeriscono un immenso cantiere permanente, e le ciminiere confermano la natura industriale. Nessuna traccia di ciò che chiamiamo città: nessuna via, salvo quel nastro stradale e i pochi viottoli; nessuna piazza salvo gli slarghi per girare un carretto. I personaggi umani non sono affatto protagonisti, ma semplici comparse: per far funzionare la macchina della produzione, o osservare perplessi ciò che cresce attorno. Forse, negli anni a venire, questa periferia sarà città, ma oltre l’orizzonte ci sarà ancora uno spazio immerso nel flusso della città che avanza conquistatrice. Nella città antica, sul tavolo operatorio del progettista/chirurgo il tessuto tradizionale smette i panni della massa brulicante e sconosciuta per diventare “organismo”, dissezionabile per componenti, e poi ricomponibile nel piano regolatore. Riga, squadra e compasso ridisegnano anche la città tenendo conto degli studi sociali e sanitari, e la città è ritagliata dalle linee della conoscenza scientifica: zone classificate omogenee entro cui trovano posto e senso dati statistici, sociali, sanitari, le aspettative per la città futura, e si definisce una mappa complessa. Nasce l’urbanistica moderna, aprendosi la via fra il nucleo antico e la periferia in espansione di tutte le città in crescita: non più solo architettura grandiosa o ingegneria utilitaria, o slancio a migliorare le condizioni dei più sfortunati. Con l’estendersi della rete ferroviaria, inizia però anche un’altra storia, diciamo sul lato opposto del viale della stazione, ma molto più lontano della periferia dipinta da Boccioni: nasce il suburbio moderno, il quartiere immerso nel verde che imita la campagna e si fregia dell’affascinante titolo di città giardino. Molti conoscono la città giardino del riformista inglese Ebenezer Howard, descritta nel suo famoso libretto del 1898 come impresa cooperativa di lavoratori, in cui si integrano la coltivazione dei campi, l’attività industriale, quartieri salubri e parchi. Ma Garden City era anche il motto di Chicago a metà ‘800 o il nome di una speculazione privata, iniziata verso il 1870 a Long Island, New York. Alexander Stewart, magnate dei grandi magazzini alla francese (importando negli Usa quello descritto da Zola nel Paradiso delle Signore), investe in ferrovie, compra terreni e immagina la città giardino, quartiere per le famiglie dei facoltosi newyorchesi, raggiungibile dall’ufficio di Manhattan in un paio d’ore circa. Non è ancora il classico quartiere suburbano dell’automobilismo di massa, ma ne ha già tutte le caratteristiche di mercato: si rivolge più alle signore che ai mariti, canta la gioia di riscoprire la natura senza rinunciare alle comodità della vita moderna, lontano dalla città, dai rumori, dalla criminalità. Il paradiso immerso nel verde a un tiro di sasso dal centro è servito, insomma.

Kropotkin      Ebzener Howward

Pëtr  Kropotkin                              Ebenezer Howard

Ma chi mira al profitto fa paura il ragionamento del geografo Pëtr Kropotkin, che propone di ricomporre città e campagna in un sistema equilibrato dove usando il titolo del suo libro possano convivere in armonia Campi, fabbriche, officine. Con idee del genere Kropotkin è ricercato dalla polizia di tutta Europa, mentre il contemporaneo Ebenezer Howard con idee quasi identiche (ma che non toccano il tema della proprietà) si merita il plauso di tutta la borghesia e pure della nobiltà. In cosa si distinguono in sostanza le due città giardino? Entrambe sono gradevoli e piene di vita, occasione di lavoro e socialità, immerse in un verde niente affatto ornamentale, ma agricolo e produttivo, secondo i criteri dell’epoca anche rispettoso dell’ambiente. Ma una ha qualche possibilità di successo, l’altra no. Kropotkin è perseguitato perché mette in discussione l’ordine costituito, dei rapporti tra capitale e lavoro, e in fondo tra la città e la campagna. Da una buona efficienza applicata con sensibilità tecnica, ci ricorda il principale manualista italiano del primo ‘900, Antonio Pedrini, nascono quasi automaticamente anche gli altri due caratteri fondativi della città ideale, ovvero giustizia distributiva delle qualità urbane, e bellezza a disposizione di tutti negli ambiti pubblici, e nei rapporti dello spazio urbano con il paesaggio circostante. Esiste secondo la cultura degli ingegneri igienisti ottocenteschi un rapporto diretto fra salute ed estetica: la bella piazza sarà anche quella che meglio saprà valorizzare i propri spazi e gestire tutte le attività umane che la rendono tale. Considerazioni di buon senso, ma il fatto nuovo è che a cavallo fra XIX e XX secolo queste informazioni assumono la forma della comunicazione di massa in volumetti tascabili come quelli che pubblica Ulrico Hoepli a Milano. L’urbanistica moderna è fondamentalmente democratica, diversa sia dall’impianto autoritario delle decisioni nella città fortezza, sia dalla partecipazione elitaria del borgo di commercianti. Coinvolge strati sempre più ampi di popolazione, sia nella forma ovvia delle elezioni, sia nella formazione di un’opinione pubblica locale influente. A partire dall’educazione dei cittadini: chi conosce l’urbanistica saprà gestire meglio la città futura, amministrandola come si fa per casa propria: al meglio. E per educare il cittadino bisogna partire da quando è giovane, come a Chicago dove nelle scuole l’economia urbana diventa materia obbligatoria, con un suo testo adottato ufficialmente a partire dal 1911. Una serie di letture ed esercizi in cui si mescolano conoscenze storiche, estetiche, sociali, di impegno civico, e dove con la guida dell’insegnante gli studenti potranno seguire i vari aspetti della vita urbana, paragonata a quella di un nucleo famigliare allargato. Grande successo editoriale: Economia Municipale (noto anche come Wacker’s Manual dal nome dell’ideatore) sarà ristampato in edizioni successive sino agli anni ’30, contribuendo a formare diverse generazioni di abitanti. Anche secondo l’urbanista britannico Patrick Abercrombie compito dello stato moderno è quello di insegnare cittadinanza istruendo sul territorio, la geografia, la società. Per non parlare dei vantaggi per l’esercito, di avere soldati in grado di muoversi con cognizione su vari tipi di terreno. Si propone così di introdurre la geografia urbana e territoriale fra le materie obbligatorie degli istituti superiori, emancipando in pratica l’urbanistica dall’approccio solo ingegneristico,verso una maggior apertura interdisciplinare e sociale. Con il XX secolo si entra nella fase in cui l’ordine urbano inizia davvero a imporsi come conquistatore di enormi spazi, dove l’elemento naturale ancora domina, ma in qualche modo per gentile concessione. Sintomatico della condizione moderna, un visionario testo dell’ambientalista Benton MacKaye propone migliaia di chilometri di una catena montuosa, estesa sul territorio di diversi Stati del Nord America come una sorta di complemento alle metropoli delle pianure. Anticipando di fatto la teoria della Megalopoli di Jean Gottmann, formulata proprio su quel territorio della costa atlantica degli Usa. Il Sentiero sui Monti Appalachi  è un “piano regionale” di parco complementare all’area metropolitana, di enorme articolazione complementare delle due entità della città e della campagna. Una catena montuosa coi suoi boschi e corsi d’acqua, smette di essere la meta di alpinisti borghesi in cerca di avventura per diventare spazio per una frequentazione di massa, e sbocco di tensioni occupazionali e motivazionali. Più vicino ai criteri del piano regolatore urbano, anche se su dimensioni ancora enormi, lo schema regionale per l’area di New York i cui studi iniziano nel 1922, coordinato da uno dei protagonisti del movimento per la città giardino britannica, ex amministratore di Letchworth, Thomas Adams. Proprio il movimento della città giardino ha intuito che per rispondere agli squilibri della città-macchina industriale, questa va ammaestrata come un grosso animale selvatico, e resa più docile al servizio all’uomo. Il Regional Plan for New York and its Environs sarà un lungo processo di studio e consultazione multidisciplinare sulll’intero periodo dall’immediato primo dopoguerra agli anni del new deal di Roosevelt, e che resta vivo sino ai nostri giorni. L’idea di partenza è di applicare all’intera zona metropolitana una serie di riforme urbanistiche già consolidate nella città centrale.

Il Re e la Regina apre il corteo inaugurale che taglia il nastro dell’Autostrada dei Laghi - Milano 1924

Il Re e la Regina aprono il corteo inaugurale che taglia il nastro dell’Autostrada dei Laghi – Milano 1924

Un’altra innovazione tecnica, dall’altra parte dell’Atlantico, completa nel 1924 il quadro: in una bella mattina di sole, alla periferia orientale di Milano, fra risate di signore eleganti e sguardi alteri di baffuti dignitari, l’auto col Re e la Regina apre il corteo inaugurale che taglia il nastro dell’Autostrada dei Laghi, la prima del mondo. Si aprono nuovi immensi territori per qualcosa di assai meno elegante del corteo reale, ossia l’esplosione edilizia dei piccoli centri. Nelle circoscrizioni ex rurali attraversate dai nuovi flussi di mobilità, si crea quello che Benton MacKaye definisce road-slum, ovvero l’antenato di tutte le fasce stradali degradate, più o meno legali, fatto di edifici commerciali, residui di residenza rurale, stazioni di sevizio, piazzali, chioschi, insegne. Alessandro Schiavi riflette su questo tema: il piccolo comune non può certo esprimere una cultura di piano adeguata alla dimensione della sfida posta dalle autostrade. Che fare? Iniziare innanzitutto a pensare l’intera area, per quanto grande, come un unico organismo, e in questa prospettiva provare ad esprimere un programma generale che possa coordinare tutte le trasformazioni, in corso e nel futuro prevedibile: strade, ferrovie, ponti, grandi nuclei edilizi, parchi. Per farlo ci sono due percorsi: uno dall’alto verso il basso, in cui un ente amministrativo responsabile di una grande territorio vigila sull’equilibrato evolversi delle aree interessate da una grande infrastruttura viaria; uno partecipativo, in cui i piccoli comuni si associano in una entità maggiore, grande quanto il problema da risolvere. Esistono ormai due dimensioni apparentemente inconciliabili: la città produttiva e dei flussi, nella quale ci si sposta da casa all’ufficio alla fabbrica ai grandi servizi; e quella dell’abitare, della famiglia, delle relazioni amicali. Per la prima volta negli anni ’20 il tema trova una soluzione sistematica nelle ricerche del sociologo Clarence Perry, che del quartiere, o unità di vicinato, individua alcuni capisaldi essenziali, di tipo sia quantitativo che qualitativo. Sarà inserito nelle grandi maglie stradali e collegato ad esse, ma la sua caratteristica organizzativa principale sarà la pedonalità. Quindi non è attraversato da arterie di comunicazione di rango cittadino, è fortemente scoraggiato il traffico veicolare di attraversamento, la distanza massima di un punto qualsiasi al nucleo centrale di servizi non supera qualche centinaio di metri. Abitanti, in linea di massima non oltre 10-15.000 persone, su cui modulare l’offerta di servizi pubblici e privati, dal commercio al verde. Nodo sociale e spaziale di tutto l’organismo quartiere sarà la scuola dell’obbligo. Come si intuisce, si tratta né più né meno del quartiere così come lo conosciamo ancora oggi.

(continua)

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Città e campagna: tutti i colori del verde (I parte)

15 martedì Ott 2013

Posted by terradegnazia in Urbanistica

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Tag

Canaletto, città, colori, Fabrizio Bottini, Gouverneur Morris, I Camp Terra d'Egnazia, La città conquistatrice, Spazio pubblico, verde

canaletto

Ponte di Walton nel Surrey, Canaletto 1755

Intervento di Fabrizio Bottini al 1° Camp Terra d’Egnazia 21 sett 2013                editing per il web di Antonello Martinez Gianfreda

Versione semplificata e abbreviata del capitolo introduttivo a                               “La Città Conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione”.                                ed. Corte del Fontego, Venezia 2012.  di Fabrizio Bottini

(I Parte)

“When the man with a 45 meets the man with a rifle, the man with a pistol is a dead man.” (A Fistful of Dollars, regia di Sergio Leone, 1964)

L’aggettivo “urbano” si applica a tanti fenomeni diversissimi; riassume non solo varie conformazioni di spazi fisici, ma anche stili di vita, di consumo, aspettative di relazione sociale o di affermazione economica. Anche le stesse rilevazioni statistiche, nel tempo, si sono dovute adeguare a questa moltiplicazione di senso, per cui alla netta distinzione fra città e campagna si aggiungono le aree suburbane, o quelle esurbane: ovvero là dove la città certamente esiste, ma sotto mentite spoglie.

Naturalmente non è sempre stato così.

Nella Bibbia si trova un passaggio che recita: “avranno le città per abitarvi e il contado servirà per il loro bestiame, per i loro beni e per tutti i loro animali … si estenderà per lo spazio di mille cubiti fuori dalle mura della città tutt’intorno” (Numeri: 35:3-4). La prescrizione divina non è che una utile ricetta di vita quotidiana. La città è il luogo dell’intelletto, della trasformazione dell’ambiente per le necessità umane, di vita e relazione. La campagna è luogo della natura, sia nelle forme agricole che della foresta, dei fiumi, montagne e deserti. La ricerca di un equilibrio fra conoscenza e sconosciuto, ragione e istinto, natura e artificio nella Bibbia si traduce in precetti dove si distinguono un luogo centrale, e un’area intermedia di campagna coltivata dove la presenza umana sfuma via via negli spazi naturali.

Si improvvisa geometra e giurista anche il profeta Isaia, quando ammonisce: “Guai a quelli che aggiungono casa a casa, e uniscono campo a campo, fino a occupare ogni spazio, e diventano i soli proprietari in mezzo al paese!” (Isaia: 5:8). Salta all’occhio dalle parole del Profeta la consapevolezza della necessità di distinguere la casa dell’uomo da quella della natura: non solo si deve porre un limite all’avidità dei singoli ad occupare coi propri interessi tutto lo spazio, ma anche la città dovrà essere in qualche modo definita. Altrimenti l’ira di dio potrebbe scatenarsi senza pietà per nessuno

C’è anche qualcosa d’altro nelle parole della Bibbia, che si coglie a una secondo lettura: l’area grigia che oggi chiameremmo periferia, spazio rurale se osservato dalle mura urbane, ma diverso dalla selva oscura che si estende oltre. É il luogo che i pittori raffiguravano popolato da personaggi e oggetti tipicamente urbani, dalla dama che passeggia, al piccolo monumento, ma anche da simboli della natura misteriosa e ostile, pronta a prendere il sopravvento appena calano le tenebre. Non è forse un caso, se le grandi trasformazioni della rivoluzione industriale si annunciano anche nelle immagini della pittura.

Un quadro del Canaletto, realizzato nel periodo britannico, riassume il salto di qualità che cancella per molti decenni gli ammonimenti di Isaia. Si tratta del Ponte di Walton nel Surrey, dipinto nel 1755 circa, dopo la realizzazione della passerella a pedaggio che sostituisce l’originario traghetto sul Tamigi. L’area è lontana da Londra, e la ferrovia deve ancora essere inventata (la prima macchina di Watt è di una ventina di anni dopo), ma la sensibilità del pittore costruisce una scena dove spariscono i riferimenti alla natura misteriosa, e i personaggi e simboli tipicamente rurali.

Dame e signori eleganti, barcaioli, alberi radi, una specie di giardino più che di selva oscura, e in mezzo a tutto lo scintillante ponte reticolare in legno che consente alle carrozze di proseguire rapidamente. Si intravede la casa del custode per incassare il pedaggio, e l’idea di spazio “urbano” appare evidente: è un edificio a 2 piani senza troppe pretese, che potemmo immaginarci affacciato sulla piazza del paese. È un bel salto di qualità anche rispetto al suburbium delle ville signorili, come quella dove si rifugiano per sfuggire alla peste i giovani affabulatori del Decameron di Boccaccio, nelle forme di semi-castello delle dimore medicee, o più tardi palladiane.

Castello

Gouverneur Morris a cavallo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX  unisce nella sua persona due aspetti essenziali: rappresenta il capitalismo democratico, e la tecnologia industriale che lo sta lanciando alla conquista del mondo. Morris è uno degli estensori della Costituzione degli Stati Uniti, e ha anche occasione di collaborare con Robert Fulton, uno dei leggendari pionieri del vapore. Nel 1807 Morris è nominato presidente della Commissione Strade di New York, col compito di stendere uno schema per la forma urbana di questa capitale, il cui marchio di fabbrica non poteva che derivare dalla tecnica e dal mercato, e riassumersi in un segno al tempo stesso banale e implacabile: un rettangolo definito dall’incrocio delle avenues che tagliano tutta l’isola di Manhattan dalla città esistente al fiume Harlem, con le più di 150 strade ortogonali.

Nuova immagine

Se ripensiamo all’intuizione artistica di Canaletto nel Ponte di Walton solo mezzo secolo prima, è evidente l’enorme passo in avanti compiuto dalle due generazioni cresciute nel segno della città-macchina, del mercato spinto dalla tecnologia. La traballante passerella sul Tamigi si proietta perentoria nelle linee rette che risalgono per chilometri e chilometri un territorio ancora sostanzialmente naturale, assoggettandolo virtualmente alla crescita urbana delle generazioni che verranno. La griglia regolare  funziona in due direzioni: dalla città e nella città. I grandi viali, ancora tracciati prevalentemente solo sulla carta, da un lato si inoltrano nel territorio rurale, e nella direzione opposta dei quartieri antichi, con linee precise e parallele contrastano l’intrico di percorsi e trasformazioni sedimentate dalla storia, arrestandosi a volte davanti a un monumento, piegando un po’ il percorso, oppure travolgendo tutto.

I viali della modernità assomigliano alla grandiosa prospettiva barocca, ma l’energia che li sottende li proietta molto più in là, nello spazio e nel tempo. Una vera e frattura nel ritmo delle cose, che non dovranno più evolversi secondo le stagioni della vita, i tempi dell’individuo, ma trovare nuovo respiro in sintonia con gli stantuffi della macchina a vapore.
La letteratura del XIX secolo è ricca di spunti in questo senso, dai Misteri di Parigi di Eugene Sue, con la città tortuosa, scura, popolata di personaggi sfuggenti, al Ventre di Parigi di Emile Zola, con gli “sventramenti” del prefetto Haussmann, che portano modernità tra le pieghe dei misteri; a chiudere col giornalistico Ventre di Napoli di Matilde Serao, dove si fa appello alla scienza e alle sue applicazioni urbanistiche, per spazzar via il retaggio di millenni di miseria e ingiustizia. Con un rettifilo, una ariosa avenue identica alle linee parallele tracciate verso le colline settentrionali di Manhattan, o ai boulevards del passeggio borghese di Parigi.

[continua]

La solitudine delle idee

01 martedì Ott 2013

Posted by terradegnazia in Editoriale

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1° Camp, Fabrizio Bottini, Fasano, Giambattista Giannoccaro, Monopoli, Terra d'Eganzia

di Giambattista Giannoccaro

Sabato 21 Settembre, il Camp. Lascio suonare la sveglia regolata per le 07:00 La notte è stata insonne con lo sguardo verso la finestra cercando di far incastrare tempi e problemi di quanto da un mese non ci ha dato tregua. 

Le luci della strada si sono appena spente, infilo le ciabatte lasciate sotto al letto prima di decidere che potevo meritarmi un po’ di riposo. “La solitudine delle idee”, per caso o per volere del fato, viene trasmessa alla radio.

Erano le tre, quando avevo appena completato il lavoro di presentazione delle slide del mio intervento alla conferenza. Fino al giorno prima, eravamo tutti insieme a cercare di non lasciare nulla al caso per la logistica del palco che ospiterà gli artisti. Musicisti che suoneranno, ballerini che danzeranno, attori che si esibiranno.

A quell’ora, da veri nottambuli, che non ci capitava di vivere dai tempi delle nottate passate a disegnare prima degli esami, o quando io e mia moglie Anna fummo svegliati dalle contrazioni della sua pancia nel momento in cui Bartolomeo decise di venire al mondo, una lacrima penzoloni intristiva il mio volto. E intanto mi chiedevo se avessi fatto tutto per dare agli otto anni di mio figlio la stessa possibilità di godere delle sensazioni che questa terra mi ha dato: nelle scorribande di bambino, fra lame, ulivi secolari, calette naturali e fondali marini.

Lo scenario naturale è fatto di onde increspate dal vento che mescola allo stesso tempo i profumi del mare a quelli di timo. Lo scenario fantastico è quello di imponenti scenografie e quinte monumentali, restituite dal tempo di quell’antico insediamento, tra terra e mare, tra il muraglione e l’acropoli attraversati dalla via Traiana.

Anna e Bartolomeo dormono estenuati dalle ridondanti parole pronunciate dalla phonocar improvvisata con una Panda per le vie della città, per fare in modo che le aspettative degli espositori della Mostra Mercato fossero ripagate, che gli invitati alla conferenza avessero voce ed immagini e che i ciclo passeggiatori avessero strada anche per le loro ruote libere.

Fabrizio Bottini, mi ha appena messaggiato. Ha raggiunto il B&B, farà colazione e poi andremo un po’ in giro per mari e monti.

E’ il giorno del Camp (si legge come si scrive), è il meeting all’aperto dei cittadini della Terra d’Egnazia. E’ il giorno in cui i cittadini della Terra d’Egnazia hanno deciso di rimettersi insieme per sentirsi partecipi da un lato ed osservatori attenti dall’altro, tutto e solo per amore e per le sorti della propria terra e di chi la vive. Il giorno in cui gente comune ha deciso di dare vita alla “presa” del territorio. Eppure c’è chi, da essere il paladino dell’ambiente, e invece di combattere coloro che si sono macchiati della complicità degli scempi (avallati dallo Stato), ha pensato bene di rovesciarci addosso ogni sorta d’invettiva. E neppure viso a viso, ma nascondendosi dietro una tastiera digitale. Vomito digitale.

Un sogno, utopistico, ma solo per gli scettici. Servi e vittime delle idee di chi comanda. Sapessero… Sapessero quanta gente, accorsa in massa, avrebbe voluto ascoltare anche i motivi del loro scetticismo ad oltranza. Per capire anche il senso delle loro, spesso inconsistenti, provocazioni. Ci è voluto poco per capire che non avrebbero avuto nulla da dire. Hanno perso un occasione, non so dirvi se sia l’ultima. L’invito lo avevano ricevuto, assieme ai loro burattinai. Hanno perso un’occasione anche per ascoltare quanto la gente ha da dire, quanto la gente ha da fare, per evitare di essere stranieri in casa e riprendere a godere degli scenari, del paesaggio, della natura che questo territorio, la Terra d’Egnazia, ha ancora da esprimere. Hanno perso un’occasione per comprendere le origini dei loro fallimenti e che c’è un popolo che ha voglia di partecipazione.

E’ sempre meno, il tempo che ci resta per riprenderci il fagotto depredato, e per non restare soli, con le nostre idee.

Spazio Pubblico

30 martedì Lug 2013

Posted by terradegnazia in Cittadinanza, Libri, Territorio, Urbanistica

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ambiente, città, Fabrizio Bottini, Spazio pubblico, Terra d'Egnazia, Territorio

Spazio pubblico

Negli anni recenti anche in Italia si sono rese esplicite le tendenze verso una concezione privatistica e mercificata dello spazio pubblico, che inclina a cancellare tutto ciò che risulta estraneo al puro valore di scambio. La stessa involuzione si ritrova nell’idea più generale dei rapporti umani, nella chiusura e frammentazione della famiglia, dell’impresa, della corporazione, e si manifesta vistosamente nelle discussioni sulla privatizzazione dell’acqua o sul valore relativo dei poteri regolatori dello Stato. È possibile interrompere questa deriva reazionaria che sta progressivamente restringendo un diritto essenziale, storicamente legato all’esercizio stesso della democrazia? Studiosi di discipline sociali e territoriali, amministratori, sindacalisti, rappresentanti della società civile analizzano la questione, iniziando a delineare un progetto per restituire alla comunità i luoghi deputati alla socialità. L’occasione per intrecciare e confrontare punti di vista, discipline e soggetti è stata la Scuola estiva di Eddyburg, nel settembre 2009: una settimana di relazioni, seminari, incontri, gruppi di lavoro tematici e, infine, un convegno organizzato assieme alla Camera territoriale del lavoro – CGIL di Padova, con il contributo di Legambiente Padova.

Spazio pubblico, a cura di Fabrizio Bottini – Ediesse 2010 – €. 15.00

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