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Terra d'Egnazia

~ 'Gnatia Lymphis iratis exstructa'

Terra d'Egnazia

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Città e campagna: tutti i colori del verde (III parte)

03 domenica Nov 2013

Posted by terradegnazia in Urbanistica

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La città conquistatrice

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“…diffusion is too kind of word. … In bursting its bounds, the city actually sprawled and made the countryside ugly, uneconomic and of doubtful social value…” (Earle S. Draper, 1937)

Intervento di Fabrizio Bottini al 1° Camp Terra d’Egnazia 21 sett 2013                editing per il web di Antonello Martinez Gianfreda

Versione semplificata e abbreviata del capitolo introduttivo a                               “La Città Conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione”.                                ed. Corte del Fontego, Venezia 2012.  di Fabrizio Bottini

(III Parte)

Sistematicamente scomposta nei suoi elementi costitutivi, la grande città moderna è anche più gestibile con gli strumenti del progetto architettonico a scala urbana, ed entra qui in campo il ruolo più noto del ‘900, la figura dell’architetto-urbanista (purtroppo spesso confusa con l’esperto di città e territorio tout court), nella prospettiva culturale così come nella realtà professionale e nell’immaginario collettivo. Non aveva certo sempre occupato un ruolo centrale, se si pensa al lungo primato degli igienisti, o a figure particolari come i riformatori sociali, gli esponenti di discipline scientifiche o umane. In Italia quando si comincia a parlare di piani di grande dimensione, la prima proposta di studi per formare un urbanista è lontanissima dalla figura dell’architetto.

La Scuola di Alti Studi Municipali (1926). scompone le materie per la gestione e progettazione urbana in una decina di ambiti diversi, sociali, tecnico-edilizi, amministrativi, ambientali, unificati dalle scelte politiche. Vincerà però, forse anche davanti alla smisurata difficoltà dei problemi da affrontare, l’architetto-urbanista dotato soprattutto di intuizione, capacità di gettare il cuore oltre l’ostacolo senza perdere di vista la realtà. Tutto grazie anche all’idea di quartiere, interpretata dal progetto in infinite varianti.

Nell’articolo intitolato Questioni Urbanistiche, Gustavo Giovannoni nel 1928 dà per scontato e ovvio il primato dell’architettura nell’idea di città e territorio. Parte dalla dimensione territoriale regionale, spazio dilatato oltre le estreme frange periferiche. Un ambito che può essere anche rurale, punteggiato di edifici sparsi, e attraversato solo da strade e ferrovie. Anche la città è ritagliata nello stesso modo, da strade e binari, che definiscono i quartieri. Quelli vecchi e quelli nuovi, i primi da conservare, oppure adattare, secondo un adagio caro all’Autore, alla vita moderna, con la tecnica cosiddetta del diradamento edilizio. Nel periodo tra le due guerre, in Italia e non solo, trionferà questo genere di approccio architettonico-progettuale, in cui è protagonista il dialogo spazi definiti, che mette in secondo molti degli aspetti cruciali del territorio. Le utopie si svuotano di molti contenuti sociali per incarnarsi nei profetici estremi di certi schizzi di Le Corbusier, o alla più compiuta ma non meno iperbolica Broadacre di Frank Lloyd Wright, dove la città scompare del tutto, sostituita da una specie di autostrada pigliatutto, e naturalmente ad elevata qualità architettonica.

L’ideologia dell’anticittà comporta una implicita superiorità dell’ambiente rurale, luogo di innocenza e saldi valori contro la corruzione della metropoli, dove all’abbondanza di spazi verdi figli si aggiunge la supposta maggiore solidità del nucleo familiare. Fisicamente, si tratta di spazi molto semplici, predomina la casetta unifamiliare isolata nel suo lotto e, attorno, le strutture viarie minime per metterla in rapporto col resto del mondo. Immagine idilliaca ma falsa, come iniziano a verificare alcuni osservatori più attenti al quadro territoriale che alla qualità architettonica di singole componenti.

I gruppi per la tutela del paesaggio rurale, già negli anni ‘20 notavano un rapporto squilibrato fra l’urbanizzazione cosiddetta a nastro sulle grandi arterie di comunicazione, poco più profonda del lotto edificabile, e il degrado del territorio. In Nord America, si è già nella prima fase di automobilismo di massa, ben riassunta dai cortei di vecchi camioncini carichi di famiglie contadine descritti da John Steinbeck nel suo Furore!  Tocca alla sensibilità Earle Draper, responsabile per la pianificazione territoriale della Tennessee Valley Authority, pronunciare pubblicamente per la prima volta la parolaccia, nel 1938, scusandosi doverosamente per la volgarità: Sprawl. La moltiplicazione delle casette unifamiliari e dei piccoli edifici di servizio, ormai raggiungibili facilmente col mezzo di trasporto individuale, sta inesorabilmente trasformando le campagne in una triste caricatura della città. E in gioco non c’è solo un pur importantissimo fattore estetico e identitario, ma un dissennato consumo di risorse non rinnovabili.

Nel secondo dopoguerra il rinnovato interesse per i temi della città, dipende dall’emergenza della ricostruzione edilizia dei centri danneggiati dagli eventi bellici, ma anche dalle prospettive di crescita economica nel segno dell’industrializzazione, della crescita dei consumi di massa, della motorizzazione privata. La nuova parola d’ordine è “decentramento”, ovvero invasione pianificata delle campagne da parte della città. Molti studiosi dell’epoca sottolineano in questo il peso (la cosa in effetti era a portata di mano già nel periodo successivo alla prima guerra mondiale) degli effetti devastanti dei bombardamenti aerei, e lo choc collettivo per le atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Si delineano gli scenari della futura guerra fredda, e tradurre in pratica i principi della cosiddetta urbanistica antiaerea ora non pare più esagerato.

Gli istituti superiori cominciano ad attrezzarsi per i grandi progetti, per inserire nei curricula materie un tempo lasciate alla pura sensibilità individuale (come le scienze sociali), e finalmente per aprire la specializzazione in urbanistica ai diplomi in ambiti diversi da quelli dell’architettura e dell’ingegneria civile. Un mondo che considera la gestione urbana e del territorio integrata ai sistemi di welfare, richiede approcci complessi e partecipativi, a partire dalla questione di genere. Perché abbiamo bellissime cucine e pessime città, si chiede un sociologo britannico? E risponde: perché c’è troppa poca sensibilità femminile applicata all’urbanistica. Più in generale, si potrebbe dire, c’è troppa poca formazione in certi aspetti dell’osservazione sperimentale ed empirica, e poco uso degli eventuali risultati di queste ricerche.

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Da qui partono almeno due percorsi fondamentali per gli anni a venire. Quello di Jane Jacobs che pubblica per la prima volta un saggio maturo sul tema del rapporto fra complessità urbana e trasformazione urbanistica, che sarà alla base de La vita e la morte delle grandi città; e quello di William H. Whyte che sperimenta tecniche scientifiche di analisi della vita di strada e dei suoi rapporti con le norme edilizie e sul traffico. A lui devono moltissimo anche studiosi successivi molto più noti, a partire dal danese Jan Gehl e altri. Irrompe il cittadino in quanto tale, a sostituirsi alla logica astratta degli specialisti che era subentrata per tutto l’arco centrale del ‘900.

Nel secondo dopoguerra molte grandi metropoli diventando anche (meritatamente o no) simbolo di emarginazione e degrado. Chi può permetterselo, opta per la fuga dalla città fai-da-te, o nel caso americano approfitta della grande offerta speciale del dopoguerra: prestiti e mutui agevolati per l’acquisto di casa e beni di consumo durevole, grandi investimenti stradali, enormi quartieri suburbani di iniziativa privata. Il suburbio americano (in qualche modo poi imitato in tutte le parti del mondo negli anni successivi) è una frattura col pensiero urbanistico. Si lega invece alle forme più estreme e individualiste dell’approccio degli architetti, dalla citata Broadacre di Wright al meno noto modello lineare della Roadtown di Edgar Chambless, che già in epoca ferroviaria voleva “come Mosè” indicare al suo popolo la via per la nuova frontiera, portandosi appresso il guscio della casa, e lasciando la città al suo destino. Anche un altro americano all’alba del XX secolo si era detto dello stesso parere. Per la città moderna c’era una unica soluzione possibile: scomparire. Si chiamava Henry Ford.

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The modern city has been prodigal, it is today bankrupt, and tomorrow it will cease to be” (Henry Ford, My life and work, 1922)

Per tutte le generazioni dal secondo dopoguerra a oggi l’idea di città conquistatrice, ovvero di uno stile di vita urbano tendenzialmente universale e pervasivo, si applica in realtà indifferentemente alla triade di ambiti che si è provato a distinguere in questa nota. Quello urbano propriamente detto, dallo spazio storico alla periferia; quello rurale, dove alla qualità di insediamento sparso si affianca in tutto o in buona parte il riferimento sociale ed economico ad attività locali legate al territorio; buon ultimo, ma ovviamente non in ordine di importanza, la dispersione suburbana ed esurbana, che mescola confusamente elementi fisici e sociali costitutivi della città, della campagna, a volte anche della natura incontaminata, spesso proponendone una incomprensibile mescolanza. A volte incomprensibile anche per chi ci abita, sempre insostenibile per il resto del mondo, quando induce spreco di risorse, esasperazione dei consumi individuali, mortificazione delle relazioni sociali rarefatte sino all’isolamento della famiglia nucleare.

C’è molto da riflettere, insomma, sul tema dell’identità urbana, e del suo rapporto con l’ambiente fisico, oltre che con l’immaginario collettivo.

Fabrizio Bottini

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Città e campagna: tutti i colori del verde (II parte)

22 martedì Ott 2013

Posted by terradegnazia in Urbanistica

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Ebenezer Howard, Fabrizio Bottini, La città conquistatrice, Petr Kropotkin, Porta Romana, Umberto Boccioni

Boccioni

Officine di Porta Romana – Umberto Boccioni – 1908

Intervento di Fabrizio Bottini al 1° Camp Terra d’Egnazia 21 sett 2013                editing per il web di Antonello Martinez Gianfreda

Versione semplificata e abbreviata del capitolo introduttivo a                               “La Città Conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione”.                                ed. Corte del Fontego, Venezia 2012.  di Fabrizio Bottini

II Parte

A raccordare la città nuova e quella rinnovata, la stazione ferroviaria. Da quel punto che si irraggiano i grandi viali, spesso alberati, spesso allineati da edifici importanti e simbolici, l’albergo, le poste, la banca. Il viale della stazione punta dritto verso il centro antico, aprendosi la strada finché può nell’intrico della città tradizionale, e sull’altro versante si inoltra nella campagna extra moenia, dove cominciano a crescere i nuovi quartieri. È la periferia, ciò che campagna non è più e città non lo è ancora e che cancella definitivamente l’antica separazione raccomandata dal profeta Isaia, sostituendo allo spazio definito un flusso. Tra i quadri che cercano di cogliere questa condizione di precarietà, val la pena ricordare le Officine di Porta Romana di Umberto Boccioni che pur dipinto nel 1908 riassume lo spazio suburbano che caratterizza tutta la seconda metà del XIX secolo. Una larga strada, tracciata attraverso la campagna abbandonata, è percorsa da decine di pedoni, e qualche carretto, fino all’orizzonte. Edifici quasi mai conclusi e formalmente definiti suggeriscono un immenso cantiere permanente, e le ciminiere confermano la natura industriale. Nessuna traccia di ciò che chiamiamo città: nessuna via, salvo quel nastro stradale e i pochi viottoli; nessuna piazza salvo gli slarghi per girare un carretto. I personaggi umani non sono affatto protagonisti, ma semplici comparse: per far funzionare la macchina della produzione, o osservare perplessi ciò che cresce attorno. Forse, negli anni a venire, questa periferia sarà città, ma oltre l’orizzonte ci sarà ancora uno spazio immerso nel flusso della città che avanza conquistatrice. Nella città antica, sul tavolo operatorio del progettista/chirurgo il tessuto tradizionale smette i panni della massa brulicante e sconosciuta per diventare “organismo”, dissezionabile per componenti, e poi ricomponibile nel piano regolatore. Riga, squadra e compasso ridisegnano anche la città tenendo conto degli studi sociali e sanitari, e la città è ritagliata dalle linee della conoscenza scientifica: zone classificate omogenee entro cui trovano posto e senso dati statistici, sociali, sanitari, le aspettative per la città futura, e si definisce una mappa complessa. Nasce l’urbanistica moderna, aprendosi la via fra il nucleo antico e la periferia in espansione di tutte le città in crescita: non più solo architettura grandiosa o ingegneria utilitaria, o slancio a migliorare le condizioni dei più sfortunati. Con l’estendersi della rete ferroviaria, inizia però anche un’altra storia, diciamo sul lato opposto del viale della stazione, ma molto più lontano della periferia dipinta da Boccioni: nasce il suburbio moderno, il quartiere immerso nel verde che imita la campagna e si fregia dell’affascinante titolo di città giardino. Molti conoscono la città giardino del riformista inglese Ebenezer Howard, descritta nel suo famoso libretto del 1898 come impresa cooperativa di lavoratori, in cui si integrano la coltivazione dei campi, l’attività industriale, quartieri salubri e parchi. Ma Garden City era anche il motto di Chicago a metà ‘800 o il nome di una speculazione privata, iniziata verso il 1870 a Long Island, New York. Alexander Stewart, magnate dei grandi magazzini alla francese (importando negli Usa quello descritto da Zola nel Paradiso delle Signore), investe in ferrovie, compra terreni e immagina la città giardino, quartiere per le famiglie dei facoltosi newyorchesi, raggiungibile dall’ufficio di Manhattan in un paio d’ore circa. Non è ancora il classico quartiere suburbano dell’automobilismo di massa, ma ne ha già tutte le caratteristiche di mercato: si rivolge più alle signore che ai mariti, canta la gioia di riscoprire la natura senza rinunciare alle comodità della vita moderna, lontano dalla città, dai rumori, dalla criminalità. Il paradiso immerso nel verde a un tiro di sasso dal centro è servito, insomma.

Kropotkin      Ebzener Howward

Pëtr  Kropotkin                              Ebenezer Howard

Ma chi mira al profitto fa paura il ragionamento del geografo Pëtr Kropotkin, che propone di ricomporre città e campagna in un sistema equilibrato dove usando il titolo del suo libro possano convivere in armonia Campi, fabbriche, officine. Con idee del genere Kropotkin è ricercato dalla polizia di tutta Europa, mentre il contemporaneo Ebenezer Howard con idee quasi identiche (ma che non toccano il tema della proprietà) si merita il plauso di tutta la borghesia e pure della nobiltà. In cosa si distinguono in sostanza le due città giardino? Entrambe sono gradevoli e piene di vita, occasione di lavoro e socialità, immerse in un verde niente affatto ornamentale, ma agricolo e produttivo, secondo i criteri dell’epoca anche rispettoso dell’ambiente. Ma una ha qualche possibilità di successo, l’altra no. Kropotkin è perseguitato perché mette in discussione l’ordine costituito, dei rapporti tra capitale e lavoro, e in fondo tra la città e la campagna. Da una buona efficienza applicata con sensibilità tecnica, ci ricorda il principale manualista italiano del primo ‘900, Antonio Pedrini, nascono quasi automaticamente anche gli altri due caratteri fondativi della città ideale, ovvero giustizia distributiva delle qualità urbane, e bellezza a disposizione di tutti negli ambiti pubblici, e nei rapporti dello spazio urbano con il paesaggio circostante. Esiste secondo la cultura degli ingegneri igienisti ottocenteschi un rapporto diretto fra salute ed estetica: la bella piazza sarà anche quella che meglio saprà valorizzare i propri spazi e gestire tutte le attività umane che la rendono tale. Considerazioni di buon senso, ma il fatto nuovo è che a cavallo fra XIX e XX secolo queste informazioni assumono la forma della comunicazione di massa in volumetti tascabili come quelli che pubblica Ulrico Hoepli a Milano. L’urbanistica moderna è fondamentalmente democratica, diversa sia dall’impianto autoritario delle decisioni nella città fortezza, sia dalla partecipazione elitaria del borgo di commercianti. Coinvolge strati sempre più ampi di popolazione, sia nella forma ovvia delle elezioni, sia nella formazione di un’opinione pubblica locale influente. A partire dall’educazione dei cittadini: chi conosce l’urbanistica saprà gestire meglio la città futura, amministrandola come si fa per casa propria: al meglio. E per educare il cittadino bisogna partire da quando è giovane, come a Chicago dove nelle scuole l’economia urbana diventa materia obbligatoria, con un suo testo adottato ufficialmente a partire dal 1911. Una serie di letture ed esercizi in cui si mescolano conoscenze storiche, estetiche, sociali, di impegno civico, e dove con la guida dell’insegnante gli studenti potranno seguire i vari aspetti della vita urbana, paragonata a quella di un nucleo famigliare allargato. Grande successo editoriale: Economia Municipale (noto anche come Wacker’s Manual dal nome dell’ideatore) sarà ristampato in edizioni successive sino agli anni ’30, contribuendo a formare diverse generazioni di abitanti. Anche secondo l’urbanista britannico Patrick Abercrombie compito dello stato moderno è quello di insegnare cittadinanza istruendo sul territorio, la geografia, la società. Per non parlare dei vantaggi per l’esercito, di avere soldati in grado di muoversi con cognizione su vari tipi di terreno. Si propone così di introdurre la geografia urbana e territoriale fra le materie obbligatorie degli istituti superiori, emancipando in pratica l’urbanistica dall’approccio solo ingegneristico,verso una maggior apertura interdisciplinare e sociale. Con il XX secolo si entra nella fase in cui l’ordine urbano inizia davvero a imporsi come conquistatore di enormi spazi, dove l’elemento naturale ancora domina, ma in qualche modo per gentile concessione. Sintomatico della condizione moderna, un visionario testo dell’ambientalista Benton MacKaye propone migliaia di chilometri di una catena montuosa, estesa sul territorio di diversi Stati del Nord America come una sorta di complemento alle metropoli delle pianure. Anticipando di fatto la teoria della Megalopoli di Jean Gottmann, formulata proprio su quel territorio della costa atlantica degli Usa. Il Sentiero sui Monti Appalachi  è un “piano regionale” di parco complementare all’area metropolitana, di enorme articolazione complementare delle due entità della città e della campagna. Una catena montuosa coi suoi boschi e corsi d’acqua, smette di essere la meta di alpinisti borghesi in cerca di avventura per diventare spazio per una frequentazione di massa, e sbocco di tensioni occupazionali e motivazionali. Più vicino ai criteri del piano regolatore urbano, anche se su dimensioni ancora enormi, lo schema regionale per l’area di New York i cui studi iniziano nel 1922, coordinato da uno dei protagonisti del movimento per la città giardino britannica, ex amministratore di Letchworth, Thomas Adams. Proprio il movimento della città giardino ha intuito che per rispondere agli squilibri della città-macchina industriale, questa va ammaestrata come un grosso animale selvatico, e resa più docile al servizio all’uomo. Il Regional Plan for New York and its Environs sarà un lungo processo di studio e consultazione multidisciplinare sulll’intero periodo dall’immediato primo dopoguerra agli anni del new deal di Roosevelt, e che resta vivo sino ai nostri giorni. L’idea di partenza è di applicare all’intera zona metropolitana una serie di riforme urbanistiche già consolidate nella città centrale.

Il Re e la Regina apre il corteo inaugurale che taglia il nastro dell’Autostrada dei Laghi - Milano 1924

Il Re e la Regina aprono il corteo inaugurale che taglia il nastro dell’Autostrada dei Laghi – Milano 1924

Un’altra innovazione tecnica, dall’altra parte dell’Atlantico, completa nel 1924 il quadro: in una bella mattina di sole, alla periferia orientale di Milano, fra risate di signore eleganti e sguardi alteri di baffuti dignitari, l’auto col Re e la Regina apre il corteo inaugurale che taglia il nastro dell’Autostrada dei Laghi, la prima del mondo. Si aprono nuovi immensi territori per qualcosa di assai meno elegante del corteo reale, ossia l’esplosione edilizia dei piccoli centri. Nelle circoscrizioni ex rurali attraversate dai nuovi flussi di mobilità, si crea quello che Benton MacKaye definisce road-slum, ovvero l’antenato di tutte le fasce stradali degradate, più o meno legali, fatto di edifici commerciali, residui di residenza rurale, stazioni di sevizio, piazzali, chioschi, insegne. Alessandro Schiavi riflette su questo tema: il piccolo comune non può certo esprimere una cultura di piano adeguata alla dimensione della sfida posta dalle autostrade. Che fare? Iniziare innanzitutto a pensare l’intera area, per quanto grande, come un unico organismo, e in questa prospettiva provare ad esprimere un programma generale che possa coordinare tutte le trasformazioni, in corso e nel futuro prevedibile: strade, ferrovie, ponti, grandi nuclei edilizi, parchi. Per farlo ci sono due percorsi: uno dall’alto verso il basso, in cui un ente amministrativo responsabile di una grande territorio vigila sull’equilibrato evolversi delle aree interessate da una grande infrastruttura viaria; uno partecipativo, in cui i piccoli comuni si associano in una entità maggiore, grande quanto il problema da risolvere. Esistono ormai due dimensioni apparentemente inconciliabili: la città produttiva e dei flussi, nella quale ci si sposta da casa all’ufficio alla fabbrica ai grandi servizi; e quella dell’abitare, della famiglia, delle relazioni amicali. Per la prima volta negli anni ’20 il tema trova una soluzione sistematica nelle ricerche del sociologo Clarence Perry, che del quartiere, o unità di vicinato, individua alcuni capisaldi essenziali, di tipo sia quantitativo che qualitativo. Sarà inserito nelle grandi maglie stradali e collegato ad esse, ma la sua caratteristica organizzativa principale sarà la pedonalità. Quindi non è attraversato da arterie di comunicazione di rango cittadino, è fortemente scoraggiato il traffico veicolare di attraversamento, la distanza massima di un punto qualsiasi al nucleo centrale di servizi non supera qualche centinaio di metri. Abitanti, in linea di massima non oltre 10-15.000 persone, su cui modulare l’offerta di servizi pubblici e privati, dal commercio al verde. Nodo sociale e spaziale di tutto l’organismo quartiere sarà la scuola dell’obbligo. Come si intuisce, si tratta né più né meno del quartiere così come lo conosciamo ancora oggi.

(continua)

Città e campagna: tutti i colori del verde (I parte)

15 martedì Ott 2013

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Canaletto, città, colori, Fabrizio Bottini, Gouverneur Morris, I Camp Terra d'Egnazia, La città conquistatrice, Spazio pubblico, verde

canaletto

Ponte di Walton nel Surrey, Canaletto 1755

Intervento di Fabrizio Bottini al 1° Camp Terra d’Egnazia 21 sett 2013                editing per il web di Antonello Martinez Gianfreda

Versione semplificata e abbreviata del capitolo introduttivo a                               “La Città Conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione”.                                ed. Corte del Fontego, Venezia 2012.  di Fabrizio Bottini

(I Parte)

“When the man with a 45 meets the man with a rifle, the man with a pistol is a dead man.” (A Fistful of Dollars, regia di Sergio Leone, 1964)

L’aggettivo “urbano” si applica a tanti fenomeni diversissimi; riassume non solo varie conformazioni di spazi fisici, ma anche stili di vita, di consumo, aspettative di relazione sociale o di affermazione economica. Anche le stesse rilevazioni statistiche, nel tempo, si sono dovute adeguare a questa moltiplicazione di senso, per cui alla netta distinzione fra città e campagna si aggiungono le aree suburbane, o quelle esurbane: ovvero là dove la città certamente esiste, ma sotto mentite spoglie.

Naturalmente non è sempre stato così.

Nella Bibbia si trova un passaggio che recita: “avranno le città per abitarvi e il contado servirà per il loro bestiame, per i loro beni e per tutti i loro animali … si estenderà per lo spazio di mille cubiti fuori dalle mura della città tutt’intorno” (Numeri: 35:3-4). La prescrizione divina non è che una utile ricetta di vita quotidiana. La città è il luogo dell’intelletto, della trasformazione dell’ambiente per le necessità umane, di vita e relazione. La campagna è luogo della natura, sia nelle forme agricole che della foresta, dei fiumi, montagne e deserti. La ricerca di un equilibrio fra conoscenza e sconosciuto, ragione e istinto, natura e artificio nella Bibbia si traduce in precetti dove si distinguono un luogo centrale, e un’area intermedia di campagna coltivata dove la presenza umana sfuma via via negli spazi naturali.

Si improvvisa geometra e giurista anche il profeta Isaia, quando ammonisce: “Guai a quelli che aggiungono casa a casa, e uniscono campo a campo, fino a occupare ogni spazio, e diventano i soli proprietari in mezzo al paese!” (Isaia: 5:8). Salta all’occhio dalle parole del Profeta la consapevolezza della necessità di distinguere la casa dell’uomo da quella della natura: non solo si deve porre un limite all’avidità dei singoli ad occupare coi propri interessi tutto lo spazio, ma anche la città dovrà essere in qualche modo definita. Altrimenti l’ira di dio potrebbe scatenarsi senza pietà per nessuno

C’è anche qualcosa d’altro nelle parole della Bibbia, che si coglie a una secondo lettura: l’area grigia che oggi chiameremmo periferia, spazio rurale se osservato dalle mura urbane, ma diverso dalla selva oscura che si estende oltre. É il luogo che i pittori raffiguravano popolato da personaggi e oggetti tipicamente urbani, dalla dama che passeggia, al piccolo monumento, ma anche da simboli della natura misteriosa e ostile, pronta a prendere il sopravvento appena calano le tenebre. Non è forse un caso, se le grandi trasformazioni della rivoluzione industriale si annunciano anche nelle immagini della pittura.

Un quadro del Canaletto, realizzato nel periodo britannico, riassume il salto di qualità che cancella per molti decenni gli ammonimenti di Isaia. Si tratta del Ponte di Walton nel Surrey, dipinto nel 1755 circa, dopo la realizzazione della passerella a pedaggio che sostituisce l’originario traghetto sul Tamigi. L’area è lontana da Londra, e la ferrovia deve ancora essere inventata (la prima macchina di Watt è di una ventina di anni dopo), ma la sensibilità del pittore costruisce una scena dove spariscono i riferimenti alla natura misteriosa, e i personaggi e simboli tipicamente rurali.

Dame e signori eleganti, barcaioli, alberi radi, una specie di giardino più che di selva oscura, e in mezzo a tutto lo scintillante ponte reticolare in legno che consente alle carrozze di proseguire rapidamente. Si intravede la casa del custode per incassare il pedaggio, e l’idea di spazio “urbano” appare evidente: è un edificio a 2 piani senza troppe pretese, che potemmo immaginarci affacciato sulla piazza del paese. È un bel salto di qualità anche rispetto al suburbium delle ville signorili, come quella dove si rifugiano per sfuggire alla peste i giovani affabulatori del Decameron di Boccaccio, nelle forme di semi-castello delle dimore medicee, o più tardi palladiane.

Castello

Gouverneur Morris a cavallo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX  unisce nella sua persona due aspetti essenziali: rappresenta il capitalismo democratico, e la tecnologia industriale che lo sta lanciando alla conquista del mondo. Morris è uno degli estensori della Costituzione degli Stati Uniti, e ha anche occasione di collaborare con Robert Fulton, uno dei leggendari pionieri del vapore. Nel 1807 Morris è nominato presidente della Commissione Strade di New York, col compito di stendere uno schema per la forma urbana di questa capitale, il cui marchio di fabbrica non poteva che derivare dalla tecnica e dal mercato, e riassumersi in un segno al tempo stesso banale e implacabile: un rettangolo definito dall’incrocio delle avenues che tagliano tutta l’isola di Manhattan dalla città esistente al fiume Harlem, con le più di 150 strade ortogonali.

Nuova immagine

Se ripensiamo all’intuizione artistica di Canaletto nel Ponte di Walton solo mezzo secolo prima, è evidente l’enorme passo in avanti compiuto dalle due generazioni cresciute nel segno della città-macchina, del mercato spinto dalla tecnologia. La traballante passerella sul Tamigi si proietta perentoria nelle linee rette che risalgono per chilometri e chilometri un territorio ancora sostanzialmente naturale, assoggettandolo virtualmente alla crescita urbana delle generazioni che verranno. La griglia regolare  funziona in due direzioni: dalla città e nella città. I grandi viali, ancora tracciati prevalentemente solo sulla carta, da un lato si inoltrano nel territorio rurale, e nella direzione opposta dei quartieri antichi, con linee precise e parallele contrastano l’intrico di percorsi e trasformazioni sedimentate dalla storia, arrestandosi a volte davanti a un monumento, piegando un po’ il percorso, oppure travolgendo tutto.

I viali della modernità assomigliano alla grandiosa prospettiva barocca, ma l’energia che li sottende li proietta molto più in là, nello spazio e nel tempo. Una vera e frattura nel ritmo delle cose, che non dovranno più evolversi secondo le stagioni della vita, i tempi dell’individuo, ma trovare nuovo respiro in sintonia con gli stantuffi della macchina a vapore.
La letteratura del XIX secolo è ricca di spunti in questo senso, dai Misteri di Parigi di Eugene Sue, con la città tortuosa, scura, popolata di personaggi sfuggenti, al Ventre di Parigi di Emile Zola, con gli “sventramenti” del prefetto Haussmann, che portano modernità tra le pieghe dei misteri; a chiudere col giornalistico Ventre di Napoli di Matilde Serao, dove si fa appello alla scienza e alle sue applicazioni urbanistiche, per spazzar via il retaggio di millenni di miseria e ingiustizia. Con un rettifilo, una ariosa avenue identica alle linee parallele tracciate verso le colline settentrionali di Manhattan, o ai boulevards del passeggio borghese di Parigi.

[continua]

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