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Canaletto, città, colori, Fabrizio Bottini, Gouverneur Morris, I Camp Terra d'Egnazia, La città conquistatrice, Spazio pubblico, verde
Intervento di Fabrizio Bottini al 1° Camp Terra d’Egnazia 21 sett 2013 editing per il web di Antonello Martinez Gianfreda
Versione semplificata e abbreviata del capitolo introduttivo a “La Città Conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione”. ed. Corte del Fontego, Venezia 2012. di Fabrizio Bottini
(I Parte)
“When the man with a 45 meets the man with a rifle, the man with a pistol is a dead man.” (A Fistful of Dollars, regia di Sergio Leone, 1964)
L’aggettivo “urbano” si applica a tanti fenomeni diversissimi; riassume non solo varie conformazioni di spazi fisici, ma anche stili di vita, di consumo, aspettative di relazione sociale o di affermazione economica. Anche le stesse rilevazioni statistiche, nel tempo, si sono dovute adeguare a questa moltiplicazione di senso, per cui alla netta distinzione fra città e campagna si aggiungono le aree suburbane, o quelle esurbane: ovvero là dove la città certamente esiste, ma sotto mentite spoglie.
Naturalmente non è sempre stato così.
Nella Bibbia si trova un passaggio che recita: “avranno le città per abitarvi e il contado servirà per il loro bestiame, per i loro beni e per tutti i loro animali … si estenderà per lo spazio di mille cubiti fuori dalle mura della città tutt’intorno” (Numeri: 35:3-4). La prescrizione divina non è che una utile ricetta di vita quotidiana. La città è il luogo dell’intelletto, della trasformazione dell’ambiente per le necessità umane, di vita e relazione. La campagna è luogo della natura, sia nelle forme agricole che della foresta, dei fiumi, montagne e deserti. La ricerca di un equilibrio fra conoscenza e sconosciuto, ragione e istinto, natura e artificio nella Bibbia si traduce in precetti dove si distinguono un luogo centrale, e un’area intermedia di campagna coltivata dove la presenza umana sfuma via via negli spazi naturali.
Si improvvisa geometra e giurista anche il profeta Isaia, quando ammonisce: “Guai a quelli che aggiungono casa a casa, e uniscono campo a campo, fino a occupare ogni spazio, e diventano i soli proprietari in mezzo al paese!” (Isaia: 5:8). Salta all’occhio dalle parole del Profeta la consapevolezza della necessità di distinguere la casa dell’uomo da quella della natura: non solo si deve porre un limite all’avidità dei singoli ad occupare coi propri interessi tutto lo spazio, ma anche la città dovrà essere in qualche modo definita. Altrimenti l’ira di dio potrebbe scatenarsi senza pietà per nessuno
C’è anche qualcosa d’altro nelle parole della Bibbia, che si coglie a una secondo lettura: l’area grigia che oggi chiameremmo periferia, spazio rurale se osservato dalle mura urbane, ma diverso dalla selva oscura che si estende oltre. É il luogo che i pittori raffiguravano popolato da personaggi e oggetti tipicamente urbani, dalla dama che passeggia, al piccolo monumento, ma anche da simboli della natura misteriosa e ostile, pronta a prendere il sopravvento appena calano le tenebre. Non è forse un caso, se le grandi trasformazioni della rivoluzione industriale si annunciano anche nelle immagini della pittura.
Un quadro del Canaletto, realizzato nel periodo britannico, riassume il salto di qualità che cancella per molti decenni gli ammonimenti di Isaia. Si tratta del Ponte di Walton nel Surrey, dipinto nel 1755 circa, dopo la realizzazione della passerella a pedaggio che sostituisce l’originario traghetto sul Tamigi. L’area è lontana da Londra, e la ferrovia deve ancora essere inventata (la prima macchina di Watt è di una ventina di anni dopo), ma la sensibilità del pittore costruisce una scena dove spariscono i riferimenti alla natura misteriosa, e i personaggi e simboli tipicamente rurali.
Dame e signori eleganti, barcaioli, alberi radi, una specie di giardino più che di selva oscura, e in mezzo a tutto lo scintillante ponte reticolare in legno che consente alle carrozze di proseguire rapidamente. Si intravede la casa del custode per incassare il pedaggio, e l’idea di spazio “urbano” appare evidente: è un edificio a 2 piani senza troppe pretese, che potemmo immaginarci affacciato sulla piazza del paese. È un bel salto di qualità anche rispetto al suburbium delle ville signorili, come quella dove si rifugiano per sfuggire alla peste i giovani affabulatori del Decameron di Boccaccio, nelle forme di semi-castello delle dimore medicee, o più tardi palladiane.
Gouverneur Morris a cavallo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX unisce nella sua persona due aspetti essenziali: rappresenta il capitalismo democratico, e la tecnologia industriale che lo sta lanciando alla conquista del mondo. Morris è uno degli estensori della Costituzione degli Stati Uniti, e ha anche occasione di collaborare con Robert Fulton, uno dei leggendari pionieri del vapore. Nel 1807 Morris è nominato presidente della Commissione Strade di New York, col compito di stendere uno schema per la forma urbana di questa capitale, il cui marchio di fabbrica non poteva che derivare dalla tecnica e dal mercato, e riassumersi in un segno al tempo stesso banale e implacabile: un rettangolo definito dall’incrocio delle avenues che tagliano tutta l’isola di Manhattan dalla città esistente al fiume Harlem, con le più di 150 strade ortogonali.
Se ripensiamo all’intuizione artistica di Canaletto nel Ponte di Walton solo mezzo secolo prima, è evidente l’enorme passo in avanti compiuto dalle due generazioni cresciute nel segno della città-macchina, del mercato spinto dalla tecnologia. La traballante passerella sul Tamigi si proietta perentoria nelle linee rette che risalgono per chilometri e chilometri un territorio ancora sostanzialmente naturale, assoggettandolo virtualmente alla crescita urbana delle generazioni che verranno. La griglia regolare funziona in due direzioni: dalla città e nella città. I grandi viali, ancora tracciati prevalentemente solo sulla carta, da un lato si inoltrano nel territorio rurale, e nella direzione opposta dei quartieri antichi, con linee precise e parallele contrastano l’intrico di percorsi e trasformazioni sedimentate dalla storia, arrestandosi a volte davanti a un monumento, piegando un po’ il percorso, oppure travolgendo tutto.
I viali della modernità assomigliano alla grandiosa prospettiva barocca, ma l’energia che li sottende li proietta molto più in là, nello spazio e nel tempo. Una vera e frattura nel ritmo delle cose, che non dovranno più evolversi secondo le stagioni della vita, i tempi dell’individuo, ma trovare nuovo respiro in sintonia con gli stantuffi della macchina a vapore.
La letteratura del XIX secolo è ricca di spunti in questo senso, dai Misteri di Parigi di Eugene Sue, con la città tortuosa, scura, popolata di personaggi sfuggenti, al Ventre di Parigi di Emile Zola, con gli “sventramenti” del prefetto Haussmann, che portano modernità tra le pieghe dei misteri; a chiudere col giornalistico Ventre di Napoli di Matilde Serao, dove si fa appello alla scienza e alle sue applicazioni urbanistiche, per spazzar via il retaggio di millenni di miseria e ingiustizia. Con un rettifilo, una ariosa avenue identica alle linee parallele tracciate verso le colline settentrionali di Manhattan, o ai boulevards del passeggio borghese di Parigi.
[continua]