“Sapere dove andare e sapere come andarci sono due processi mentali diversi, che molto raramente si combinano nella stessa persona. I pensatori della politica si dividono generalmente in due categorie: gli utopisti con la testa fra le nuvole, e i realisti con i piedi nel fango” [George Orwell]
di Giambattista Giannoccaro
Ricordo una sera d’estate degli anni 70. Eravamo un gruppetto di piccoli pescatori impegnati a procurarci l’esca per la battuta di pesca della mattina successiva. Noi bambini sapevamo che lungo la banchina del porto si catturavano un sacco di gamberetti, ne erano ghiottissime bavose e ghiozzi. Beh, quella sera vi era una calma inquietante. Il porto di Torre Canne era completamente buio, ed il cielo non aveva ancora messo in mostra la grande luna piena che aspettavamo all’orizzonte, grande e rossa. Eravamo intenti con i retini a fare la nostra scorta di gamberetti della serata e sul più bello, dal nulla, comparve un signore alto e grasso che con fare minaccioso ci consigliò, in “chiaro” dialetto fasanese, di allontanarci immediatamente da quella posizione:
Wagliò… scitavinn da do!!! (Ragazzi… andate via di qua!)
E noi, ingenui e spavaldi rispondemmo con quel dissenso ingenuo di bambini, perché quel posto era il nostro micromondo, e guai a chi ce lo toccava: Ma perché? Noi veniamo sempre qui. E tu chi sei per imporci di andarcene???!!!
E lui urlando: Nan avet capejt allaur? Mu ve n’aveit a scì da do!!! (Non avete capito allora? Adesso dovete andar via di qua!) Perché?!….. non c’è perché!!!
E noi, come dei volpini, prima ringhianti e poi …spaventati, con la coda fra le gambe, raccogliemmo in fretta e furia secchiello e retino per sparire in un attimo. Non ci allontanammo di molto. Ci nascondemmo dietro un cespuglio del recinto di un orto costiero sopravvissuto ancora alla cementificazione, perché qualcosa non ci quadrava e volevamo capire perché quel signore era così arrabbiato ed infastidito dalla nostra presenza. In un batter d’occhio la banchina si popolò di furgoni e uomini. Subito dopo nel buio della notte comparve un motoscafo che, dal mare, a luci spente, si avvicinava alla banchina. Uno dei miei compagni di pesca e di avventure, non credeva ai suoi occhi nel vedere che fra quegli uomini sulla banchina c’era anche suo fratello maggiore. Lui era il più piccolo di nove figli di un pescatore della zona. Avevano un piccolo gozzo (vuzz), con il quale il padre si procurava da mangiare per i propri figli. Pescava quel che poteva, ricci, quando il mare non riusciva a dargli altro. Li vendeva sulla spiaggia già aperti e pronti per essere consumati.
Neanche il tempo di attraccare, cominciò un passamano velocissimo di grossi scatoloni verso i furgoni. Nel giro di 5 minuti il motoscafo sparì nuovamente nel nulla assieme ai furgoni, gli uomini e tutti gli scatoloni. Erano i tempi in cui tra Savelletri e Torre Canne si assisteva ad inseguimenti tra elicotteri della guardia di finanza e scafisti del contrabbando: sbarchi di sigarette a tutte le ore della giornata. A quei tempi si andava al mare con le famiglie, sei bambini ed una mamma in una FIAT 500; due ricci appena pescati, aperti e mangiati col culo nell’acqua; un polpo sbattuto, arricciato e diviso un cirro (tentacolo) a testa per essere immediatamente consumato. Con le biciclette, negli anni a seguire, scorrazzavamo liberi tra lame e masserie, ahimè ognuno con la propria fionda ricavata da rami d’ulivo, appesa al collo. Questa era munita di elastici ricavati dalle camere d’aria riciclate e caricatore in pelle, ricavato dalla linguetta di un vecchio (ma molto vecchio) paio di scarpe. Ci rifugiavamo sempre in un grande carrubo millenario, nella Lama d’Antico.
Poi arrivò (ma molto poi), l’”Operazione Primavera”. Il contrabbando “domestico” era stato nel frattempo fagocitato dalla Mafia. Le sigarette erano diventate il contorno di droga, armi, e vite umane. Poi arrivò qualcun’altro, l’ennesimo taumaturgo dedito a risollevare le sorti del territorio e soprattutto le sue. Ci doveva pur esser qualcuno per salvare il salvabile. Fu così che di colpo noi fasanesi ci siam fatti affascinare dai Resort a 5 stelle. Abbiamo preferito i campi da Golf (“in quei campi prima vi erano topi ed erbacce”, sono parole del sindaco di Fasano) e i villaggi disneyani, truccati da Borghi Antichi, imbellettati in stile Masseria Fortificata, alla faccia dell’enogastronomia e dei prodotti d’eccellenza della terra e del mare.
Dov’è finita la terra, gli orti, gli ortolani, i pescatori?! Tutto ciò lo abbiamo accettato in cambio di posti di lavoro? Ma non è la stessa musica sentita tra Taranto e l’ILVA? Ma certo!! Qui la posta in palio però non è l’inquinamento e lo svilimento di una città per le cause dirette di morte provocata, ma… la nostra libertà’ e… la nostra terra. Ne vale davvero la pena?
Non siamo (e lo saremo sempre meno) più liberi di andare al mare. Quei posti dove ci sentivamo a casa nostra, dove il vicino di asciugamano era come il dirimpettaio di casa, con cui si divideva anche il pranzo, sono ormai in gran parte diventate di uso esclusivo di un “unico” privato e della sua bulimia conquistatrice di territorio di cui non si conosce ragione, o forse.
Produrremo sempre meno pomodori regina (se esistono ancora, visto che quelli prodotti sono per lo più degli ibridi) perché sarà tutto seminato a prato per il Golf, o per il giardino del Resort. L’acqua dei pozzi, un tempo salmastra, ottima per i nostri prodotti, sarà sempre più salata. Vogliamo rassegnarci al fatto che i poveri ortolani finiranno i loro giorni a curare i prati inglesi dei loro padroni? Al fatto che non avremo più pomodorini, cime di rapa, cucumarazz (barattieri), ecc., da esportare o da proporre a turisti? E gli olivicoltori? Questi, assieme agli scomodi ulivi secolari (sradicati in questi giorni dalle euro-ruspe già all’opera), saranno decimati (anche grazie all’uso degli anticrittogamici per combattere la Xilella fastidiosa). Un’ottima soluzione per i signori del cemento e della speculazione, visto che gli ulivi secolari, con la legge regionale 14/07, non si possono più espiantare e vendere a migliaia di euro, pronti per prendere posto in lussuose ville del nord, se non addirittura per farne legna da ardere.
Il problema è che ancora si fa fatica a comprendere la differenza fra ambiente e paesaggio. Se oggi possiamo parlare di paesaggio rurale pugliese nelle sue multiformi espressioni è perché la società contemporanea che lo richiede, lo “vede” però nelle forme trasformate della Terra. Il turismo culturale legge nei segni del lavoro umano, il paesaggio umano. Tutto ciò richiede il concorso attivo delle energie istituzionali, economiche, sociali e culturali più innovative che puntano sulla tutela e valorizzazione delle straordinarie qualità del territorio pugliese e delle sue “genti vive”, per dirla alla Magnaghi (coordinatore scientifico del Piano Paesaggistico pugliese) per produrre un modello di sviluppo della regione di carattere endogeno, autosostenibile capace di produrre ricchezza durevole.
Dietro ogni potere egemonico c’è qualcuno consapevole che può essere “più facile dominare chi non crede in niente”, chi non ha ideali, chi non cerca quel sano spazio fra le nuvole, perché così resterà imbrigliato nell’indifferenza, diventando schiavo di quello stesso gioco di potere, finendo anch’egli con i piedi nel fango.
Non placheremo mai la nostra voglia di pensare e di divulgare quei sani ideali e principi o, come ci additò un giorno il sindaco fasanese, di essere“ipercritici”, se ciò si tradurrà in un fin’anche piccolo passo verso la libertà.
Foto: Chicco Saponaro, Giancarlo Bellantuono